A papa Francesco che si ostina a non ammettere che la «terza guerra mondiale a pezzi», di cui parla spesso, è a tutti gli effetti una «guerra di religione», alcuni – i soliti noti – riservano critiche, e qualcosa in più e di peggio. Ingenuo e buonista sono i termini, nel caso migliore, che delimitano il campo da una deriva oltre la quale si arriva all’insulto. Con toni da profeti dell’incubo. Che altro deve accadere, dopo le stragi una dopo l’altra di Wurzburg, Ansbach, Istanbul, Nizza e l’assassinio in una chiesa di Francia di padre Jaques Hamel sgozzato sull’altare, perché si rassegni, e ammetta che l’islam è l’altro nome del terrorismo e un ostacolo permanente alla pace. E spezzi, dunque, il filo di un dialogo in corso pur così faticosamente riannodato? E la smetta di spiegare che la «cultura dell’incontro» è l’unica via per mettere all’angolo le follie del fondamentalismo islamico e no? Se la storia parla con i fatti, la cronaca di questi giorni è un grido assordante e impietoso.Di fronte all’eccidio durante la messa a Saint-Etienne-du-Rouvray, il pensiero che per primo si è fatto strada, accanto alla profonda pietà per la vittima, è stata forse la tregua o una sospensione del sentimento di misericordia nei confronti dei carnefici, (se non fosse però che la misericordia – continua a insegnarlo Francesco – non ha bisogno neppure della pezza d’appoggio dei meriti: si dà in modo gratuito. È questa, in fondo, la santa follia e la grandezza dell’amore cristiano). Mai come nella piccola chiesa del villaggio in Normandia, gli scenari di una guerra di religione sono stati rappresentanti nella forma più estrema e definitiva: l’arma bianca nelle mani di giustizieri su un altare dove la violenza profanava insieme Vangelo e Corano, le preghiere del sacrificio eucaristico e i versi di un Libro presi a pretesto per una nuova barbarie. C’era perfino un orribile mandato ad accompagnare gli autori della barbarie: «prendi un coltello, vai...». Quale altra evidenza poteva rendere più radicale la realtà dei fronti opposti? Quale altra strada era mai in grado di reintrodurre, sulla scia della scontata «guerra di religione», il fantasma, anzi lo spettro, dello scontro di civiltà? Affermare che si è riaperto un dibattito, mentre intorno infuria una violenza sempre più cieca e infame, appare, ed è, qualcosa di inadeguato e anche un po’ misero.In realtà, è piuttosto una ferita che si riapre, e che rende ancora più amaro il tempo di un odio diffuso e implacabile. I veleni che esso sparge sono come lava che penetra e inacidisce i terreni di antica e nuova piantagione del dialogo, un metodo per la pace da un fronte, un ostacolo da evitare e abbattere da quello opposto. È un fatto che in tempi come questi, in campo, la disputa è solo fra estremi. Non è un caso che la chiesa di Francesco si trovi a respingere le insidie, non solo dialettiche, legate a una presunta «guerra di religione», dal presidio forse più eloquente del suo implacabile messaggio di amore e di speranza: Cracovia, la terra di san Giovanni Paolo II, che parla oggi al mondo con la voce dei giovani – e che proprio ieri lo ha fatto con il commovente silenzio di Francesco ad Auschwitz. Ammettere e rassegnarsi a definire «guerra di religione» l’ondata di violenza in corso, significherebbe non solo accettarla, ma in qualche modo anche proclamarla.Niente di più lontano. Ma l’ostinazione a chiamare in campo la Chiesa perché si schieri, prenda posizione e miri a un bersaglio preciso, non è né innocente né ingenua. Nelle sue forme moderne e globalizzate, il terrorismo è, in tutti i sensi, la bestia più brutta e indomabile che i sistemi politici del pianeta sono chiamati a fronteggiare. Un compito immane, che non a caso ha portato allo scoperto ritardi, impreparazione, e vere e proprie lacune, alcune davvero imperdonabili. Ma un compito che appartiene tutto intero alla politica; ai suoi sistemi di gestione, alle sue analisi e naturalmente ai suoi meccanismi di difesa.«Guerra di religione» può essere allora, nel pressing mediatico e politico che la sostiene, il 'rifugio' più a portata di mano per sviare e tenere lontani limiti e colpe che sono proprie di poteri irresponsabili e di interessi indecenti. Paradossalmente in tempi di una laicità mai tanto conclamata e diffusa, si assiste a una sorta di spinta a 'clericalizzare' i conflitti. Né può passare sotto silenzio la circostanza che proprio su questo terreno, alla Chiesa vien chiesto e quasi imposto anche di più: la forza di ergersi a difesa di una civiltà, segnatamente quella europea, con la quale viene identificata a tempi alterni. 'No' quando si tratta di riconoscerne ufficialmente e istituzionalmente le radici; 'sì', con tutta l’ipocrisia del caso, nel momento in cui si decide la chiamata a raccolta per un nemico alle porte. In questi meccanismi della politica (e dell’economia, e della stampa) è ben difficile che possa entrare qualcosa in più di calcoli e convenienze del momento, cioè la strada maestra che porta alle radici vere dei conflitti, e che di fatto preclude a un ruolo alternativo delle religioni. Senza la predicazione e il concreto obiettivo della pace, nessuna religione può dirsi tale. E guerra non è soltanto il contrario di pace, ma il nome che azzera le religioni e le rende inservibili alla causa dell’umanità.