Dibattito sulla mancata qualificazione. I perché (e i chissà) della Crisi Nazionale
I giocatori della Nazionale dopo la partita con la Svezia costata la qualificazione ai mondiali (Ansa)
Niente notti magiche, niente pizzate con gli amici per la partita, niente maxischermi, niente bambini alzati coi grandi, niente visioni condivise al campeggio o in pensione con tedeschi o francesi, niente sfottò al turista, niente sogni di caroselli festosi per la vittoria. Niente di niente, questa volta l’Italia passa, non il turno, ma la mano. La Nazionale di calcio pareggiando 0-0 con la Svezia non si è qualificata per il mondiale di Russia della prossima estate. Potrà riprovarci tra quattro anni. È la seconda volta nella storia che accade, l’altra qualificazione fallita era stata nel 1958. Inutile cercare analogie: sessant’anni fa il nostro Paese si stava avviando al 'miracolo economico', oggi il miracolo sarebbe poter godere di una crescita in media europea, riuscendo magari a ridurre il fardello di quel debito che nasce anche dai 'miracoli' del passato. Insomma, nell’Italia in cui sono tutti commissari tecnici la mancata qualificazione fa male. Sottrae a un popolo il sogno di poter ricordare al mondo che, nonostante tutto, ogni tanto nel gioco di squadra più bello che c’è sappiamo arrivare primi. Da 'Mexico ’70' in poi in finale ci siamo andati ogni 12 anni, e Russia 2018 lasciava ben sperare. Invece niente. Non è una tragedia. Ma c’è da riflettere. I prati e i giardini non sono più pieni di bambini che rincorrono un pallone, si gioca solo nelle scuole calcio, la squadra è spesso una via che deve portare al successo individuale, i genitori non amano perdere, la parola 'gioco' si accompagna sempre di più allo squallore delle scommesse e dell’azzardo. La crisi della Nazionale brucia, ma può dirci molto di come siamo diventati. E di come possiamo cambiare.
Addio dribbling. La fine del gioco con la misteriosa scomparsa della fantasia al potere
«Dribbling», termine inglese che indica il gesto tecnico del calciatore «nel momento in cui supera un giocatore avversario con la palla al piede». Ecco, nel calcio italiano, vedi alla voce Nazionale, il dribbling è misteriosamente scomparso.Dribbling è solo il titolo della trasmissione sportiva del sabato pomeriggio (Rai 2) andata in onda per la prima volta nel 1973. Anni in cui tanti ancora in campo praticavano l’antica e spettacolare arte del dribbling che nella scuola sudamericana aveva avuto i massimi epigoni in Garrincha e Pelè e in quella europea in George Best e Cruijff. Da noi, dopo i "dribblomani" Sivori e Gigi Meroni, chi sapeva saltare l’uomo e crossare per mandare in gol il compagno veniva elevato al rango di "Poeta". È il caso degli storici numeri "7" (spariti in un calcio in cui il portiere indossa la maglia n. 90) le ali libere Claudio Sala, Franco Causio e Bruno Conti. Quest’ultimo, proprio in quanto artista del dribbling, al Mundial di Spagna ’82 (quando eravamo re) si laureò miglior giocatore del torneo con tanto di lode: «Conti Bruno, più brasiliano dei brasiliani». Donadoni, Del Piero, Roberto Mancini, Roby Baggio, Pirlo, Totti, Cassano... hanno portato avanti la nobile tradizione del «saltatore d’uomo». Poi, all’improvviso, la misteriosa scomparsa della fantasia al potere. Il perché è facilmente spiegabile. Nelle scuole calcio si studia, si danno i compiti e spesso si penalizza chi osa uscire dagli schemi obbligati. Prima si impara la «zona» e poi a stoppare bene il pallone. Così il dribbling, da materia propedeutica per giocare, divertire e soprattutto divertirsi – almeno finché si è piccoli – è talora facoltativo e vieppiù vietato. Un Poeta che amava tanto il calcio, Pier Paolo Pasolini, aveva previsto tutto questo, senza causa né pretesto: «Il sogno di ogni giocatore è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare – scrive –. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai».
Massimiliano CastellaniDalle parole per ottenere consensi alle curve per inviare messaggi Il sogno di un calcio per bambini
Dopo la mancata qualificazione della Nazionale ai mondiali di Russia c’è chi, come il segretario del Pd Matteo Renzi, chiede a Tavecchio e Ventura di «riflettere» sulla loro posizione; chi come il segretario della Lega Matteo Salvini propone di valorizzare di più i «nostri» giovani; chi come la presidente di Fdi Giorgia Meloni attribuisce la colpa della sconfitta ai «troppi stranieri» nelle squadre. È una storia antica come il pallone: da sempre calcio e politica vanno a braccetto. La politica è nelle curve, sugli spalti, si infiltra, contraddistingue, caratterizza e condiziona le tifoserie. Il calcio è un bacino popolare troppo ampio per sfuggire alle attenzioni della politica o per sottrarsi alle logiche del potere. Il caso delle dimissioni da ct di Dino Zoff dopo l’Europeo del 2000 e il giudizio dell’allora premier Silvio Berlusconi ha fatto storia. Non accade solo in Italia. Ma da noi il rapporto calcio-politica tocca vette significative. Ci sono le imprese politiche costruite anche sui successi delle squadre (il Milan di Berlusconi è un riferimento di caratura mondiale), c’è qualche carriera politica nata da avventure sportive (Rivera, Galli, Weah, Mauro...), e ci sono i politici che usano il palcoscenico calcistico come cassa di risonanza. Il dibattito su italiani e stranieri in campo segue questo copione. Poi c’è il lato peggiore, l’uso che si fa delle tifoserie per costruire un immaginario e veicolare messaggi. Le "curve" in questi anni sono state spesso l’amplificatore di contenuti a sfondo razzista che, piano piano, tra cori e insulti, tra striscioni e ululati, hanno finito per sedimentarsi e porre le basi alla costruzione di un nuovo consenso. Il calcio non è solo un gioco, ma se la politica non può fare a meno del calcio, forse il calcio oggi ha bisogno di fare a meno della politica. Alleggerire, sdrammatizzare: diventare un gioco per bambini, o per adulti che vogliono a divertirsi come fossero bambini.
Ma non sarà una sconfitta se sapremo vincere la sfida con noi stessi
E se non fosse una sconfitta? O meglio: se non fosse solo una sconfitta? Dopo la mancata qualificazione della Nazionale ai Mondiali di Russia, infatti, ci sono almeno due errori da non commettere. Il primo è quello di chiudersi in un "lutto stretto", inconsolabile, per ciò che poteva essere e non sarà. Allegri! Non solo la vita continua e offre molte altre opportunità... ma uno sportivo autentico gode anche, e forse più, a vedere una partita tra altre Nazionali, capaci di dare spettacolo sul piano tecnico e della passione di gioco. Il fatto di non essere "noi" in campo, come accade con gli Azzurri, di non avere perciò "ansie da prestazione", può perfino essere un vantaggio. Il secondo errore è quello di considerare la mancata qualificazione come un disonore, una macchia indelebile sul pedigree nazionale. È vero, abbiamo una grande tradizione nel giuoco del calcio, ma vince chi corre di più o ha miglior tattica e noi evidentemente oggi non siamo fra le prime 32 nazionali a livello mondiale. Non arrivare in finale o non qualificarsi è nell’ordine delle cose, nello sport per fortuna è naturale anche un turn-over delle abilità e dei vincenti, con Paesi che crescono e altri che declinano. Certo, l’altra sera avremmo preferito tutti un netto riscatto, un colpo di reni che ci portasse dritti a sognare le serate di San Pietroburgo. Ma se avessimo agguantato la qualificazione solo per un pizzico di fortuna sarebbe stato peggio, un vero disastro. Perché non avremmo imparato nulla, dato che si apprende assai più dalle sconfitte che dai successi. La vittoria più importante, infatti, è sempre quella con se stessi. È la capacità di rialzarsi, comprendere cosa si è sbagliato, impegnarsi, soffrire e così migliorarsi. Se lo capiremo saremo, comunque, Campioni del mondo.
Francesco Riccardi