Quali cicatrici?. I nostri figli e il coronavirus. Facciamoci giuste domande
La pandemia da coronavirus che ha investito l’intero pianeta, complice anche l’arrivo della bella stagione, inizia ad allentare la sua presa. Come al termine di un conflitto, inizia la stagione della ricostruzione, termine improprio visto che il virus che ha mietuto migliaia e migliaia di vittime non ha distrutto nulla di materiale. Ci ha devastato altrove, nella psiche, negli affetti, nelle economie di molti che avevano già prima della pandemia non pochi problemi a riguardo. Gli analisti di ogni settore umano hanno cominciato a illustrare quel che ci aspetterà nei mesi che verranno. E in particolare quelli legati all’economia e alla finanza, con toni più o meno devastanti, vedono tutti nel prossimo futuro una crisi drammatica, che investirà inevitabilmente tutti.
Anche sul fronte dell’istruzione si parla di ripartenza, di nuove formule d’insegnamento che tengano conto del virus, perché con questo nemico invisibile ci dovremo convivere per un po’, e questo è l’unico dato certo di quel che ci aspetta. Ciò che sorprende, riguardo al tema dell’istruzione, è l’approccio linguistico, si parla dei nostri figli in termini di produttività scolastica, di resa formativa, di rendimento da proteggere. Si usa nei loro confronti un lessico che prende in prestito dal mondo del lavoro, dell’industria, dell’economia. Chissà cosa ne avrebbero pensato il maestro Manzi, o il maestro Giorgio Caproni, o i migliaia e migliaia di insegnanti che approcciano ai loro alunni come a figli da crescere ed educare con amore. Quel lessico, infatti, segna con evidenza una distanza di sguardo e sensibilità, un distacco tra mondo adulto e mondo dell’infanzia.
Dal tema dell’istruzione a uno sguardo più ampio, a una domanda, che deve interrogare tutti, a partire da chi scrive. Noi adulti, genitori, in particolare quelli che hanno figli bambini, nel corso di questi due mesi e oltre di pandemia ci siamo chiesti veramente cosa sentissero i nostri figli? Abbiamo tentato di immedesimarci nei loro sentimenti? In quello che provavano, spesso senza dircelo direttamente?
Oppure è accaduto il contrario? E le parole con cui ci avviciniamo all’infanzia stanno lì a dimostrarlo, ovvero che abbiamo preteso di alzare loro al nostro sguardo, alla nostra età, al nostro mondo di interessi materiali, rendendoli un prodotto della nostra vita, un investimento da proteggere dagli attacchi del mercato.
I bambini come hanno vissuto nel loro cuore questa pandemia? Quali cicatrici gli rimarranno? Di questi mesi di clausura, di tutte le immagini di disperazione e morte, della paura di abbracciare quello che ieri era il migliore amico, di tutto questo cosa si porteranno per la vita intera?
Non ci sono risposte. Ognuno dei nostri figli vivrà una sua declinazione personale, unica e irripetibile, di quel che ha patito oggi per questa pandemia da coronavirus. Noi adulti, padri e madri, una sola cosa possiamo fare: alleggerirgli il carico. Rendere la loro memoria un luogo dove convivono ricordi negativi accanto a tanti bellissimi. Abbassarci, con umiltà e amore, alla loro straordinaria altezza.