Opinioni

Caso Apple. I nodi al pettine

Giorgio Ferrari mercoledì 31 agosto 2016

Dobbiamo ringraziare i famigerati "Panama Papers" – il dossier dello studio legale panamense Mossack Fonseca che contiene 11,5 milioni di documenti relativi a più di 214mila società off-shore – se oltre ai conti riservati di satrapi, alti gradi militari, capi di Stato e di governo degli ultimi 50 anni si è squarciato un velo – sottilissimo, quasi trasparente, peraltro – su una delle contraddizioni meno tollerabili dell’Unione Europea.

Quella della disarmonia fiscale, una sorta di giungla mai veramente esplorata a fondo dove si annidano e si intrecciano scorciatoie e privilegi che consentono a migliaia di imprese (non solo multinazionali) di sfuggire comodamente alla tassazione ordinaria. E non stiamo parlando dei soli paradisi fiscali, dai più noti (l’Isola di Man, Andorra, Gibilterra, Jersey e Guernsey, il Liechtenstein), ma a quel reticolo di Paesi membri – Irlanda e Olanda in testa – che offrono condizioni particolari e bassa imposizione fiscale a migliaia di compagnie, molte delle quali americane.

È di ieri la notizia del contenzioso in atto fra la Apple e la Ue: la Commissione europea ha deliberato che Apple dovrà pagare fino a 13 miliardi di imposte arretrate più gli interessi al governo irlandese, che secondo l’Antitrust ha potuto godere di benefici fiscali illegali secondo le regole Ue sugli aiuti di Stato. Il meccanismo dell’elusione è semplice e diabolicamente perfetto, oltre che apparentemente legale: da Google alla Wells Fargo, da McDonald’s a Starbucks, da Pfizer a Goldman Sachs, da Dow Chemical a Chevron, a Walmart, a Ibm, a Procter and Gamble le prime 50 aziende americane hanno messo al riparo dal fisco almeno 1.400 miliardi di dollari riponendoli presso le casseforti di nazioni meno esigenti sul piano delle imposte.

La stessa Irlanda - che nello scorso decennio aveva conosciuto una crescita significativa rispetto alla stagnazione che affliggeva l’intera Europa proprio grazie a questi benefici accordati alle filiali straniere - si trova ora a dover contestare la decisione della Ue per non compromettere i benefici che la generosa ospitalità accordata alle grandi compagnie straniere le assicura: a Dublino - come documentammo un paio d’anni fa in un reportage su questo stesso giornale - esiste addirittura un quartiere (qualcuno lo definisce un "ghetto" doratissimo) riservato ai dipendenti di Google, con residenze, centri commerciali e standard infinitamente superiori alla relativa modestia della capitale irlandese.

Si dirà che questa improvvisa stretta della Ue nasconde qualche tardivo senso di colpa. E il pensiero corre inevitabile al presidente della Commissione Europea Juncker, a lungo sospettato – e non senza ragione – di aver accordato nel corso della sua lunga permanenza come premier nel governo del Lussemburgo generosi accordi fiscali a più di 500 aziende multinazionali. Circostanza che Juncker ha sempre negato: «Il Lussemburgo ha un sistema fiscale competitivo. Non c’è nulla di ingiusto o immorale». Non è da meno l’Olanda: quattro quinti delle più grandi compagnie mondiali e metà delle prime 500 secondo la nota classifica di "Fortune" hanno aperto nel Paese dei Tulipani una società che non è nulla di più che una cassetta delle lettere.

Non occorre nemmeno un ufficio, basta l’indirizzo. Che tuttavia è sufficiente a farne un domicilio al riparo dal fisco. Si calcola che le cassette delle lettere in Olanda siano non meno di 12mila (fra di esse ci sono società di ogni tipo, perfino quelle riconducibili ai Rolling Stones e agli U2). Anche la Fca (Fiat Chrysler Automobiles) ha sede legale in Olanda, sebbene la residenza a fini fiscali sia nel Regno Unito. Questione di convenienza, spiegherebbe chiunque, non c’è da scandalizzarsi. Semmai potremmo osservare come questo paradiso fiscale appena appena dissimulato che è diventato l’Olanda - la medesima Olanda che per anni ha tuonato contro gli sperperi dei Pigs (i tanto disprezzati Stati membri mediterranei della Ue), predicando trasparenza e austerità - merita forse una solenne tirata d’orecchi e una correzione di rotta, in vista di quell’armonizzazione fiscale che l’Europa cerca faticosamente di darsi senza mai riuscirci davvero. La stessa Gran Bretagna non aveva alcun bisogno della Brexit per continuare a elargire i privilegi della City: le sue regole fiscali e finanziarie facevano già parte di un opt-out (rinuncia alle regole Ue) favorevolissmo a Londra.

Il contenzioso con la Apple potrebbe portare lontano. Le azioni della Commissione – dicono ambienti del Tesoro americano e un "Libro bianco" pubblicato giusto qualche giorno fa – potrebbero mettere a rischio gli investimenti stranieri, il clima imprenditoriale in Europa e l’importante spirito di partenariato economico tra Usa e Ue. Teoricamente è vero, ma ce li vedete gli americani che rinunciano per puntiglio al ricchissimo mercato europeo? La verità è che i nodi della disarmonia fiscale e delle furbizie che la sostengono, e la sfruttano, cominciano finalmente a venire al pettine persino con durezza. Era ora.