Idee. Dai musulmani terroristi agli italiani mafiosi: nella prigione dei luoghi comuni
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«Ma non lo sai? Tutti i musulmani sono terroristi!». L’esclamazione fu pronunciata con tono indignato, occhi sgranati ed espressione scocciata da un bambino di otto anni, durante un incontro di catechismo. Scosse la testa, quasi compatendomi: evidentemente si chiedeva perché non riuscissi afferrare un concetto così semplice: c’erano appena stati gli attentati dell’Isis a Bruxelles, era per lui dunque ovvio che tutti i musulmani fossero terroristi che ci minacciavano. Il tema di quell’incontro era l’accoglienza. Avevo raccontato della mia famiglia e del mio lavoro di insegnante. Si era finiti a parlare di società multietnica, della necessità della tolleranza reciproca e del dialogo, e quel bambino se ne era uscito con quella frase perentoria.
Mi domandai come a otto anni potesse avere quella granitica certezza. Poi gli chiesi: «Tu quanti musulmani conosci di persona? Perché tutti quelli che conosco io sono persone estremamente pacifiche e dicono che chi uccide in nome di Dio non ha capito cos’è la fede. Magari però tu hai un’esperienza diversa». «Non ne conosco nessuno», mi rispose, tranquillo e sicuro di sé. «Ma si sa che è così». Si sa che è così: il pregiudizio incarnato in una frase. Di certo i miei amici musulmani non costituiscono un numero statistico rilevante, ma quel nessuno, accostato a quella affermazione perentoria sentita chissà dove, mi fece una impressione molto sgradevole.
La stessa sgradevole impressione suscitatami da una discussione in Grecia, in un locale. Ero andato per qualche giorno con un amico, che lì aveva abitato, ad Atene. Trascorremmo la serata con alcuni suoi conoscenti: discutemmo piacevolmente di tutto. A notte fonda, uno di loro, giovane studioso di filologia, mi disse stupito: «Io non so davvero come tu faccia a lavorare con gli adolescenti». All’inizio non capii. «In che senso?», chiesi. «Nel senso che a loro non importa niente di nulla. Sono vuoti, superficiali, sguaiati e spavaldi. Con loro si perde tempo e basta».
Quella frase mi ferì. Nei miei anni da prof di lettere, in diverse scuole superiori e in diversi indirizzi, ho conosciuto tantissime ragazze e ragazzi: certo, c’è chi gioca male la sua libertà e spreca il suo tempo, c’è persino chi butta via la sua vita, o la distrugge, o distrugge quella degli altri. Ma, nella stragrande maggioranza dei casi, ho incontrato persone preziose, piene di desideri, curiose, capaci di lasciarsi sollecitare e di accogliere le sfide. Certo, a volte bisogna lottare contro la fragilità e le maschere per entrare davvero in relazione con loro, ma, quando una relazione educativa autentica nasce, si aprono prospettive spettacolari. Chiesi allo studioso: «Perché dici così?», Si strinse nelle spalle: «Perché mia sorella è così». Ero tanto disarmato da non sapere cosa rispondergli. Non pretendevo certo di conoscere la condizione universale degli adolescenti del mondo, ma la sua affermazione a partire da un singolo caso mi fece cadere le braccia. E poi davvero sua sorella era così? O il suo modo di fare era solo una delle tante corazze che a volte l’insicurezza spinge ad indossare?
Il pregiudizio è subdolo, perché fa leva su un nostro legittimo desiderio: conoscere il mondo, interpretarlo, sapere come muoverci in esso. Il problema è che, per riuscirsi, tendiamo a inquadrare la realtà nelle nostre categorie mentali, spesso troppo rigide. Capita così di estendere a una intera categoria di persone le caratteristiche di alcuni, o di uno solo, o magari di qualcuno che ci immaginiamo solamente. Alcuni diventano tutti, le categorie imprigionano le persone. Ma le persone vengono sempre prima delle categorie. Ciascuno di noi desidera rivelarsi all’altro come volto e come storia: la rigida categoria che ci schiaccia fa male, brucia sulla pelle.
Me ne accorsi in prima persona una mattina, in una scuola in una grande città della Germania. In quella scuola c’era una sezione in cui si studiava in italiano: avevano letto un mio libro e mi avevano invitato a parlarne. Entrai nell’aula che ospitava l’incontro: gli studenti mi accolsero calorosamente. Erano quasi tutti figli o nipoti di italiani emigrati: tra di loro parlavano il tedesco, che era la loro prima lingua, ma capivano e si esprimevano molto bene anche in italiano. E, tennero subito a precisare, agli Europei e ai Mondiali di calcio tifavano l’Italia. Fui positivamente colpito dal crogiuolo di storie che lì si era riunito. Ricordo un ragazzo dai tratti somatici nordafricani, che parlava perfettamente italiano con un accento marcatamente toscano: suo padre era egiziano e sua madre era livornese.
Respirai dialogo, apertura mentale, voglia di confronto. Ma, alla fine dell’incontro, un’ombra di pregiudizio emerse anche lì. Mi fermai a fare dediche sui libri e a chiacchierare con gli studenti. Un ragazzo mi si avvicinò ridendo: «Batti il cinque - mi disse - e viva l’Italia! Italia: Berlusconi, pizza, mafia». Tre parole per sintetizzare una nazione. Lasciando perdere Berlusconi e la pizza, sulla mafia non me la presi, ma ci rimasi male. Esistono italiani mafiosi? Certo. Anzi, alcuni italiani sono diventati esportatori internazionali di mafia. Ma il fatto di essere accostato in quanto italiano alla parola mafia non mi piacque affatto. Era la prima volta che sentivo un pregiudizio cucitomi addosso: mi venne da replicare, quasi in nome di tutti gli italiani onesti, la stragrande maggioranza, e mi chiesi come dovesse sentirsi un musulmano pacifico e perbene accusato pregiudizialmente di simpatizzare per i terroristi.
Quando è accaduto che a tutti i membri di una determinata categoria fossero attribuiti gli errori di alcuni, la storia ha dato il peggio di sé. Non tutti i musulmani sono terroristi, solo alcuni. Non tutti gli italiani sono mafiosi, solo alcuni. Non tutti gli adolescenti sono superficiali, solo alcuni. Eppure, gli schemi mentali restano. Qual è l’antidoto al pregiudizio? Io credo sia l’incontro con l’altro. Con l’altro concreto, non immaginato. Con la persona, non con la categoria. Perché l’incontro autentico con la persona porta spesso a scoprire, sorprendentemente, che l’altro è molto più simile a me di quanto pensassi. E la scuola è una delle palestre di incontro concreto più formidabili che ci siano.
C’era un collega prof che mi era antipatico a pelle. Non mi piaceva il suo modo di fare, il suo atteggiamento con gli studenti, il suo apparire altezzoso. Mi pareva rigido, privo di empatia. Non avevo la minima voglia di entrare in relazione con lui. Non ci avevo mai parlato, ma davo un giudizio negativo su di lui, senza conoscerlo. Poi un giorno mi capitò di andare a pranzo in mensa prima del solito: c’era solo quel collega. Me ne resi conto quando avevo ormai riempito il vassoio, così, titubante, mi diressi al suo tavolo e mi sedetti di fronte a lui. Ero in imbarazzo: non sapevo cosa dire. Fu lui a iniziare un discorso qualunque.
Scoprii, con stupore, che avevamo figlie della stessa età e che condividevamo diverse passioni: il cinema di Clint Eastwood, i giochi di società, le passeggiate in montagna (mi consigliò diversi itinerari non troppo lontani da casa mia, che avrei percorso in seguito con grande soddisfazione). E il suo essere rigido e altezzoso? Tutta timidezza, scoprii. Lo percepii vicino e finì che prendemmo un caffè insieme al bar di fronte alla scuola. Tutto perché ero stato costretto dal caso a incontrarlo davvero, e l’incontro aveva frantumato il mio pregiudizio.
Possiamo vivere tenendo le braccia chiuse al mondo per difenderci: saremo più protetti, ma resteremo soli. Oppure possiamo vivere con le braccia spalancate: rischieremo di essere feriti più facilmente, ma ci ritroveremmo più spesso stretti in un abbraccio. Mi piace chiudere così questa rubrica, con l’immagine di un abbraccio: l’augurio è che ciascuno di noi, in ogni contesto in cui si trova, possa davvero provare a educare a uno sguardo positivo sul futuro, perché la speranza possa vincere sulla paura.
Insegnante e scrittore