Coronavirus. I miei giorni sulla luna (quel spezza relazioni)
Ho avuto il Covid. Sono stato ricoverato dieci giorni all’ospedale romano Campus Biomedico, dove sono stato curato benissimo, per polmonite bilaterale con ipossiemia. Grazie al Cielo non ho avuto embolismi. Ora sono a casa, isolato nella mia stanza, in attesa di negativizzare. Come raccontare la mia Quaresima che, da normale, è diventata speciale? Forse l’insegnamento più importante è verificare ancora una volta come l’esperienza sia superiore a quanto si immagina, che la realtà è più importante dell’idea.
C’è dispiacere per non aver capito prima i sintomi che, davvero, mi si sono presentati profondamente diversi da come li immaginavo. Ma la profezia definitiva del coronavirus per me, la parola sulla quale debbo riflettere, è “relazione”. Un reparto Covid ti porta direttamente sulla Luna. Nessuno può venire a trovarti e tutto il personale, medici, infermieri, addetti alle pulizie, è avvolto in tute che ricordano quelle di Neil Armstrong. Queste protezioni, assolutamente necessarie, oltre a complicare moltissimo la vita a chi le indossa, rendono difficilissimo ogni rapporto umano. Il paziente vede solo gli occhi di chi si rapporta con lui: io non riuscivo a riconoscere se il mio interlocutore fosse uomo o donna, distinguevo solo la forma degli occhiali, quando c’erano. In ospedale, dopo un anno di coronavirus, ti scopri a pensare che i medici sanno curarti perfettamente: ma pensi anche che “non è andato tutto bene”.
Proprio mentre si compie il primo anno di quell’Italia che sognavamo «zona protetta », tornano in mente i canti dai balconi, le pizze fatte in casa, le strade deserte, i camion di bare di Bergamo. Ciascuno serberà i propri ricordi, le proprie riflessioni. Le mie riguardano la privazione di relazioni che comincia dalla mascherina per giungere all’apice delle tute protettive integrali all’interno dei reparti Covid, proseguendo per quarantene e isolamenti fiduciari.
Quando l’aria manca, l’ossigeno diventa prezioso. Io, stando diversi giorni per 24 ore con la mascherina, l’ho sperimentato. Senti come sale per il naso e scende per i polmoni, senti come ti protegge, senti come ti fa vivere. E ti accorgi di non aver mai pensato all’importanza dell’aria fino a quando non hai iniziato a soffocare. I medici e le infermiere del reparto cercavano di rompere la distanza causata dalle tute salutando, chiamando per nome: e quello, l’uso di una parola in più, è la strada per sopperire a un’esigenza che però va innanzitutto diagnosticata, accolta, individuata. Quando ero bambino e stavo male volevo avere accanto papà e mamma, qualcuno. E adesso sono uguale, non sono cambiato per nulla. Perciò sento il bisogno che chi abita con me mi dica: mi piacerebbe starti vicino, peccato non sia possibile.
È importante verbalizzare. La separazione, la lontananza che il Covid ci impone, implica l’uso della parola. Occorre dirsi più spesso “sono contento che tu sia qui, vorrei starti vicino, vorrei non lasciarti solo”. Visto che gli altri canali per comunicarsi importanza, stima, affetto sono in gran parte ostruiti o per lo meno opachi, per far sapere a chi abbiamo accanto che per noi lui/lei è importante, non ci rimane che la parola. Quando l’infermiera entrava in stanza aveva un modo di salutare, di chiamare per nome, che sottointendeva “eccomi accanto a te oggi”.
E il mio modo di rispondere ricambiava, era di felicità. Il coronavirus, togliendoci la prossimità, ci obbliga a meditare sull’importanza della medesima. Quel muro che a causa del distanziamento è diventato invalicabile, quella separazione che ci toglie il darci la mano, il toccarci nella spalla, l’essere vicini fisicamente, chiede, profeticamente, di riflettere su tutto ciò. Su come il nostro corpo non sia un guscio che ci costringe al confino perché è una prigione ma come sia la definizione del nostro essere persona nel tempo e nello spazio, nel qui e nell’ora, in quella soglia che non è un muro ma una porta che ci definisce, liberamente, perché, in tempi normali, può essere liberamente chiusa e aperta. È su questa libertà dai nostri confini, su questo potere che ci definisce, che il Covid ci invita profeticamente a riflettere.