Analisi. L'Onu, l'Ue, le scuole e le università: quanto contano i luoghi terzi di pace
La guerra, ogni guerra, deve essere fermata. Le guerre che conosciamo e quelle che dimentichiamo. Devono essere fermate, tutte, il prima possibile. Per chi crede che ogni vita umana abbia dignità e debba essere difesa a ogni costo, un minuto in meno di guerra è una vita in più risparmiata. Ma c’è un altro motivo di indignazione e di angoscia per ogni istante aggiuntivo di violenza: il dilagare dell’odio e la proliferazione dell’idea di nemico. L’attacco terroristico al Crocus City Hall di Mosca è l’ultimo tragico episodio che conferma come strategie diverse del terrore si contagino. Tuttavia – e su questo vogliamo porre attenzione – l’odio e l’idea di nemico non avanzano solo nei luoghi direttamente colpiti: nel villaggio globale infettano ogni società. Prima di ogni guerra, infatti, si costruisce un nemico, ma con ogni guerra si moltiplica il nemico. Nell’impasto di rabbia, dolore e disorientamento, l’ignoranza, che diventa presunzione perché ritiene di sapere, e l’odio sostituiscono il volto concreto dell’altro con l’immagine del nemico, un fantasma che, proprio per la sua evanescenza, possiede una incontenibile efficacia diabolica.
Ecco perché, sebbene non riusciamo ancora a far “cessare il fuoco” nei teatri di guerra (ovunque!), noi possiamo comunque contrastare – o, quanto meno, arginare – la moltiplicazione dell’odio nelle società senza guerra. Possono farlo gli individui a livello personale, ma anche le istituzioni, soprattutto quelle che hanno, come proprio statuto implicito o dichiarato, la missione di essere istituzioni di pace. Sono istituzioni che vivono e esprimono una terzietà, cioè quella condizione di mantenere separatezza e indipendenza nei confronti delle parti in causa senza essere risucchiate dall’odio, e generare sguardi trasparenti, dialoghi inediti, convivenze impossibili. Proprio con questo fine ospitano “le parti” o le persone appartenenti a gruppi in contrasto o in guerra, e ne garantiscono la libera e piena espressione, preservandole da minacce o ripercussioni. La storia ne istituisce sempre di nuovi. Dopo la Seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite sono state il vertice luminoso di queste istituzioni disseminate nel mondo. Tra esse anche l’Europa unita si è sognata e concepita come un lembo di umanità terza, e ha spento focolai di inimicizia persistenti, se non centenari. Le istituzioni di pace dissolvono il nemico e, con esso, i sentimenti di minaccia reciproca che le storie insanguinate non cessano di alimentare di generazione in generazione. Tra queste istituzioni di pace vanno annoverate tutte quelle dedicate all’educazione, università e scuole in primis. Mi piace pensare che nei «principi fondamentali» della Costituzione italiana (artt. 1-11) sia presente una visione integrale dell’umanità, nella duplice accezione di caratteristica di ogni persona e dell’insieme della famiglia umana. Il “ripudio della guerra” (art. 11), richiamandosi alla “uguaglianza di tutti i cittadini” (art. 3) e all’ospitalità verso lo straniero (art. 10), e include “limitazioni di sovranità” in vista del bene comune della pace (art. 11). Nel Titolo secondo viene poi difesa “la libertà d’insegnamento all’interno delle norme generali dettate dalla legge della Repubblica” (art. 33). La forza civile, culturale, sociale, spirituale dei luoghi “terzi” li rende presidi decisivi perché l’odio non inghiottisca la speranza di dialoghi schietti, e la possibilità di contrasti anche aspri, forse polemici, tra tesi radicalmente contrappposte. Ogni parola, gesto, decisione o delibera che non s’ispiri alla terzietà, annulla lo stesso compito istruttivo e formativo dell’educazione, contraddicendone il valore. Una considerazione talmente radicale che neanche occorre aprire la domanda: “in quali casi si esclude qualcuno, e in quali no”. Inclusione è l’unica parola.
D’altronde, l’esistenza di istituzioni di pace non implica l’abolizione di una molteplicità di forme di protesta e di condanna. Tutt’altro! Persino la grande tradizione della nonviolenza ci ricorda efficaci opzioni di dissenso e addirittura di boicottaggio, a cominciare da quello economico. Opzioni che possono essere adottate dalle istituzioni (in questo caso dagli Stati o dai singoli cittadini, non acquistando prodotti provenienti dai Paesi di cui si intende contestare la politica di violenza e di guerra. L’esistenza delle istituzioni di pace è oggi più urgente che mai, così come il rafforzamento della coscienza, da parte delle istituzioni educative, del loro ruolo di presidio fondamentale di convivenza! Un caro amico di Berlino mi diceva: “Ricordo bene che, quando venivo in Italia negli anni Cinquanta del Novecento, ma ancora negli anni Sessanta, appena dicevo che ero tedesco, lo sguardo cambiava e vi leggevo irrompere l’equazione maledetta: tedesco = nazista”. Quell’equazione, che è una indebita generalizzazione, moltiplicava l’odio e lo spandeva in un processo senza fine. La rottura di quella equazione ha aperto la strada ai quasi ottant’anni di pace in Europa. In realtà, qualunque parola o azione che consegni e riduca le persone meramente alle storie delle loro appartenenze, senza considerare le singole scelte, le responsabilità di ciascuno/ a o eventuali “colpe”, nega la loro esistenza, ossia il diritto fondamentale di vivere in quanto persona singola. La sua dissoluzione nel gruppo e l’imputazione ai singoli di responsabilità altrui è il principio radicale di ogni annientamento. È un terribile errore incatenare singole persone alla violenza efferata e guerrafondaia operata dai propri governi, rispetto ai quali possono avere anche posizioni radicalmente contrapposte. La storia passata e la cronaca tragica sotto i nostri occhi ci fa constatare come le leadership stesse siano le prime “nemiche” del proprio popolo. “Discriminati perché appartenenti ad un gruppo, un popolo, una nazione” è l’eco di un’antica realtà: “Perseguitati e uccisi per la sola colpa di essere nati”. La constatazione più evidente di quanto sia aberrante qualsiasi azione o decisione che spinga in tale direzione, è il massacro dei bambini. Lo spazio «terzo» è decisivo per la civiltà. Poggia infatti sul valore primario dell’ospitalità, e si esercita da millenni in differenti forme e modalità.
I perseguitati e i clandestini sono stati difesi dalle istituzioni fondate su tale principio, divenute istituzioni di pace. La terzietà ha una forza particolare: non coincidendo con una neutralità o una equi-distanza, si propone come un equocoinvolgimento per la persona, il cui valore, chiunque essa sia, è anteriore alla sua storia e alla sua appartenenza. Si potrebbe dire, addirittura, che la terzietà è la forza di sostenere le persone nonostante la loro storia. Se istituzioni quali la scuola e l’università non promuovono questo atteggiamento, dove troveranno il loro senso? Esprimere questa forza significa dilatare una formidabile possibilità di inclusione e di pace, e non obbliga a pronunciarsi sulle differenti storie. Luoghi del genere permettono incontri impossibili, generativi di pace, perché sono un ambiente favorevole, come un habitat idoneo a tessere relazioni basate sulla fiducia reciproca. E così possono persino essere convocate preziose riunioni clandestine! Anche nei monasteri si è coltivata questa proposta di civiltà. Possiamo ricordare Taizé, in Francia, dove frère Roger Schutz, durante la Seconda guerra mondiale, diede rifugio ad alcuni ebrei insieme ad altri profughi, anche tedeschi. In Toscana i monaci di Camaldoli, dopo aver ospitato i corsi della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (Fuci) nell’anteguerra, durante la Resistenza accolsero persone di cultura differente, alcuni anche perseguitati; da un loro convegno venne alla luce quel Codice di Camaldoli che avrebbe poi ispirato alcuni articoli della Costituzione italiana. Nella biblioteca di Camaldoli si possono osservare - in un particolare scaffale - libri “proibiti”, quelli che venivano messi all’indice dall’autorità religiosa. È il segno di una cultura aperta, che accoglieva anche testi “eretici”, in continuità con quell’ospitalità di cui l’umanità aveva e ha sempre bisogno. Specialmente quando le guerre in paesi più o meno lontani generano diffidenza, discriminazione e odio verso persone incolpevoli e vicine. Siamo nella Settimana di Passione: ascoltiamo dai Vangeli un crescendo di odio, un processo di incubazione malefica in cui quasi tutti, singoli e istituzioni, in un modo o nell’altro concorrono all’assassinio di un innocente. Fra tutte quelle frasi anonime e persecutorie che esprimono il sentimento diffuso, una riecheggia lancinante: «Anche tu eri di quelli». Con l’assassinio di un innocente il fantasma del nemico non si esaurisce, anzi è evocato da parole senza autore che circolano senza dover alcuna giustificazione nella loro inestinguibile sete di sangue: «Anche tu eri di quelli».