La forza e le ferite delle donne. I loro volti le nostre voci
La guerra non ha un volto di donna, scrive Svetlana Aleksievic, padre bielorusso e mamma ucraina, nata nell’allora sovietica Stanislav, attuale Ivano-Frankivsk. La biografia della Nobel per la Letteratura è marchiata a fuoco dal conflitto, sotterraneo ai tempi dell’Urss, evidente e incendiario dopo la sua dissoluzione. Una guerra che, però – come tutte le guerre – non ha un volto di donna.
Perché il suo racconto di epiche battaglie, razzie di nemici, vittorie e sconfitte, è stilato con parole maschili. Nella declinazione al femminile “non ci sono eroi e strabilianti imprese, ma semplicemente persone reali impegnate nella più disumana delle occupazioni dell’uomo”.
La guerra non ha un volto di donna, dunque. La lotta, invece, ne ha tanti. Il 2022 ha portato sulla superficie reale e mediatica il fiume carsico di proteste pacifiche, resistenze nonviolente, rivendicazioni dal basso, portate avanti nel mondo da mani, teste e cuori femminili. I tre linguaggi – pensiero, sentimento e opere – che le donne hanno la capacità di tenere insieme, ha detto anche di recente papa Francesco. Dalle folle iraniane che occupano le piazze al grido: “Donne, vita, libertà” alle indigene amazzoniche pronte a fare scudo con i propri corpi agli alberi della foresta in nome del diritto all’esistenza, propria e di tutti. Dalle mamme che scavano la terra messicana in cerca dei figli, desaparecidos della narcoguerra, alle attiviste filippine impegnate nella denuncia quotidiana degli abusi delle forze di polizia. Dalle italiane in prima linea contro le mafie alle sudafricane protagoniste della battaglia anticorruzione alle studentesse afghane in sit-in di fronte alle scuole e alle università da cui le hanno espulse i taleban. A queste ultime – le donne prigioniere dell’Emirato, espunte dal radar informativo insieme al loro Paese, poco “interessante” nell’ottica di una geopolitica internazionale costruita sull’ultima emergenza – “Avvenire” ha scelto di dedicare una speciale attenzione.
Ogni giorno, dal 12 febbraio, sul nostro sito (www.avvenire.it) e anche sulle pagine del giornale, abbiamo pubblicato testimonianze, storie, lettere di giovani, adulte, anziane, all’interno della nazione o in esilio. A quante un regime fanatico ha strappato la penna di mano e con essa il diritto a esserci, noi giornaliste di “Avvenire” abbiamo offerto la nostra. Un minuscolo risarcimento che abbiamo voluto dare in prima persona, da donne a donne, con l’insostituibile e incondizionato supporto, però, dei colleghi uomini.
Perché, in un mappamondo dove sono ancora troppi i punti in cui il genere è fardello e non condizione esistenziale, abbiamo scelto proprio l’Afghanistan e le afghane? Perché i taleban hanno compiuto un salto di qualità nella strategia di discriminazione. Negli ultimi diciannove mesi, l’Emirato ha operato una progressiva cancellazione delle donne dal tessuto politico, economico, civile. Il modello vagheggiato è quello di una società “monogenere” poiché temono – e a ragione – che il confronto e il dialogo con l’altra eroda le fondamenta di un potere forgiato dalla guerra e perpetuato in nome di essa. L’Afghanistan ci riguarda, dunque: riguarda chiunque creda che l’alleanza e la reciprocità tra femminile e maschile sia la precondizione per la crescita in e dell’umanità.
Siamo partiti dai volti. Questo 8 marzo di rivoluzione disarmata da parte di tante e tanti potrebbe avere allora i lineamenti di Torpekai Amarkhel. La reporter 42enne, originaria di Kabul, cronista del sito della missione Onu in Afghanistan “Unama News”, è una dei settanta profughi morti nelle acque di Cutro, a ormai pochi metri dal Paese dove era stata costretta a scappare dalla furia dei taleban. Non per paura benché fosse stata più volte minacciata. Torpekai voleva poter continuare a fare il lavoro di giornalista. Il suo volto sorridente, immortalato su “Unama News”, è un imperativo a non smettere di prestare penna e voce a quante ne vengono private.