La nuova tragedia della migrazione. I loro occhi, la nostra notte
Siamo qui, stretti sotto coperta in 150. È notte fonda. Attorno il mare rumoreggia, alzandosi. Ogni onda è più dura, geme di sfinimento l’assito marcio di questo vecchio barcone. Da quattro giorni siamo in mare, credevamo di avercela quasi fatta. Siamo sfiniti, affamati e fradici, ma vivi. Le donne abbracciano i più piccoli, promettono che all’arrivo ci sarà da mangiare, e un letto asciutto e caldo. Una ragazza allatta al seno un figlio di pochi mesi, assorta, come astratta dalla tempesta e dalla paura che le si alzano intorno. Il vento, lo sentiamo, incattivisce, il mare adesso urla. Chi si affaccia al boccaporto alla luce del primo quarto di luna, fra le nuvole, ne intravvede le creste spumose, bianche. Sembra una bestia ora il mare, e noi una miserabile preda.
Siamo iraniani, afghani. Siamo quelli cui impiccano i figli e le figlie, siamo i perseguitati dai taleban. Per questo, siamo partiti. Vi mettereste voi in mare in una carretta, d’inverno, con dei bambini piccoli, se non fosse la ultima vostra speranza?
Molti di noi ora pregano, un mormorio coperto dal fragore sempre più rabbioso della burrasca. Moriremo, dunque? Ma, ecco, annuncia quello affacciato al boccaporto, nell’oscurità del cielo le luci di un piccolo aereo. Grida di gioia fra noi, nella stiva. Ci ha visto, l’aereo, infatti gira qualche minuto sulla nostra verticale. Poi, si allontana. La notte ripiomba.
Ma certo, ci diciamo, segnalerà la nostra posizione ai mezzi di soccorso. L’Italia non può essere lontana. E gli italiani, si sa, i naufraghi cercano di salvarli “Arriveranno”, ci ripetiamo l’un l’altro.
Dopo non molto infatti vediamo delle luci, non lontane. Una motovedetta? Ma il mare è pura furia ora, le luci scompaiono.
Tornano, spariscono di nuovo. Forse, ci diciamo, ci aspettano qualche miglio più in là, oltre una punta magari, dove il vento cala. E continuiamo a sperare, ostinati, mentre i bambini e le donne riprendono a piangere, mentre ogni onda pare volerci ingoiare: “Ci hanno visti, non è possibile che ci abbandonino”.
Terra, finalmente. Sentiamo il barcone incagliarsi nella sabbia. Ma poi di schianto, come una vecchia bestia da soma troppo carica di anni, l’assito cede e si disfa. Urla, singhiozzi, nomi gridati nel buio. Istanti: chi si aggrappa a un legno vive, chi non può abbandonare un figlio muore.
Sommersi, o salvati. Ma, si chiedono quanti riescono a raggiungere la terra, gelati, sfiniti, non c’è nessuno ad aspettarci? Sì, alcuni carabinieri da Crotone sono accorsi al primo allarme, si gettano in acqua, salvano cinque vite. Ma, e gli altri? “Eppure ci avevano visto, da quell’aereo”. E ancora gridano senza più fiato i nomi dei fratelli che mancano - che forse, soccorsi almeno a cento metri dalla riva, ora sarebbero vivi.
È solamente un esercizio di immedesimazione: proviamo a vedere la tragedia di Crotone con gli occhi di quelle donne, di quegli uomini. Non fa male, provare a immedesimarsi nell’altro. Serve, almeno, a non dire parole vuote, come: «Non si dovrebbe mai mettere in pericolo la vita dei figli», ciò che ha affermato il ministro Piantedosi. (Quei figli, sono condannati e braccati in regimi spietati.
Per loro perfino un barcone nel Mediterraneo è una chance, più che un rischio). Oppure: “Bisogna bloccare i trafficanti”, dicono altri. Come mettere un tappo a un fiume in piena: la disperazione che preme troverà altre vie. Il “cambiamento d’epoca” annunciato da Francesco è anche un tempo di migrazioni inesorabili, quasi bibliche. L’Europa tarda a realizzare. Qualcuno pensa bastino tappi, filo spinato, porti severamente controllati.
La politica e l’Europa, se sono vive ancora, se ne dovranno infine occupare.
Nel frattempo sarebbe almeno di conforto vedere a Crotone, nel Palazzetto dove si allineano le bare dei morti e diciotto bare più piccole, un rappresentante del Governo. Con dei fiori, come si usa in queste circostanze.Con una mano a sfiorare il legno dei feretri, in una fugace carezza alle vite, ai sogni perduti di tanti sconosciuti. Di padri e madri con i figli in braccio che scappavano dal terrore, e avevano fiducia nell’Italia, perché qui, sapevano, i migranti hanno sempre cercato di salvarli. Sì, avremmo voluto da chi ha potere e dovere di reggere il timone della nostra barca una carezza almeno, per quei morti e per gli ancora vivi. Un gesto da niente, eppure il segno di una solidarietà umana e cristiana che non possiamo smarrire. Se non vogliamo smarrire, alla fine, insieme all’“altro”, anche noi.