Atre giorni dalla terribile conclusione dell’attacco terrorista di Dacca, l’attenzione si concentra ora sull’identità dei militanti autori del massacro e sulle responsabilità. I primi sembrano infatti sfuggire alla tipologia abituale del militante locale, di povere origini e con motivazioni nell’incertezza delle prospettive oltre che nell’indottrinamento delle scuole coraniche. Si tratterebbe infatti di cinque o forse sette rampolli di famiglie note e di ampie possibilità economiche. Smentita ancora una volta dal governo di Dacca l’attribuzione di responsabilità del sedicente Stato islamico, Daesh. Il più ostinato nel negare la presenza nel Paese di miliziani riconducibili a Daesh è, non a caso, il ministro dell’Interno, Asaduzzaman Khan, che ieri ancora una volta ha attribuito la responsabilità dell’attacco ad un gruppo jihadista locale, il Jumatul Mujaheddin Bangladesh.
Una teoria che non spiega però perché gli autori del massacro di venerdì notte, Akash, Badhon, Bikash, Don, Ripon, individuati dalle foto postate da Daesh sul suo sito propagandistico Amaq,(a cui si aggiungerebbero Nibras Islam e Rohan Imtiaz, non ancora ufficialmente identificati) provengano, come indicato dallo stesso ministro Khan, «da famiglie benestanti, sono andati all’università e nessuno di loro ha mai frequentato una madrasa». Alla domanda sul perché sarebbero diventati militanti islamici, Khan ha risposto bruscamente: «È diventata una moda». Non una visione esattamente condivisa, se anche il numero due del ministero degli Esteri bengalese, Shahidul Haque, offrendo ieri le condoglianze ufficiali all’ambasciatore d’Italia Mario Palma, ha sostenuto che «la gente è scioccata e sorpresa perché si chiede come mai dei giovani possano essersi radicalizzati così tanto».
Ecco allora che dietro i giovani che le foto di Amaq mostrano con abiti neri e kalashnikov, sorridenti e rilassati come se stessero preparandosi a una festa goliardica e non a massacrare oltre 20 persone, in maggioranza stranieri ma anche alcuni coetanei, si affacciano 'cattivi maestri'. Come scritto ieri dal quotidiano bengalese
The Daily Star, si tratterebbe predicatori quali Anjem Choudary, Shami Witness e Zakir Nayek, assai attivi nel Subcontinente indiano, elementi di collegamento con i network jihadisti internazionali. Almeno due degli attentatori, ancora ufficialmente 'dispersi' – Nibras Islam e Rohan Imtiaz – li seguivano sui social network, almeno da un anno prima di scomparire l’inverno scorso e far perdere le loro tracce. Shami Witness è il soprannome su Twitter del 24enne indiano Mehdi Biswas, arrestato nel dicembre 2014 e formalmente accusato lo scorso dalle autorità indiane di gestire su Twitter «il più influente account favorevole allo Stato Islamico». Secondo stime del Centro internazionale per lo studio della radicalizzazione e la violenza politica del King’s College di Londra, il suo seguito sociale avrebbe coinvolto i due terzi dei jihadisti globali.Ancora indiano di nascita è Zakir Naik, un predicatore che diffonde sul suo canale televisivo islamico Peace Tv, basato a Dubai, proclami in inglese di incitamento al terrorismo contro i non musulmani e i musulmani non sunniti. Fondatore della Islamic Research Foundation di Mumbay, è noto per gli attacchi contro tutte le altre religioni e i musulmani non sunniti. Per questo gli è vietato l’ingresso in Canada, Gran Bretagna e Malaysia, ma non in Bangladesh, dove si è recato lo scorso aprile provocando forti contestazioni. Infine, il pachistano Anjem Choudary, britannico di origine, a giudizio nel Regno Unito per le leggi antiterrorismo. Avvocato e presidente della Società degli avvocati musulmani, è sotto accusa per una serie di prediche diffuse su You Tube in cui esorta all’arruolamento in Siria sotto la bandiera del Califfato.
Probabilmente, esempi e istigazioni hanno avuto un ruolo nella scelta dei giovani terroristi di Dacca, tuttavia, le mode, anche quella di adesione agli ideali del jihadismo nella versione insieme arcaica e globalizzata di Daesh, non nascono dal nulla e indubbiamente il territorio bengalese si presta per una serie di ragioni. Ragioni che vanno oltre quelle frequentemente proposte, di frustrazione per la povertà e le possibilità negate, e che chiamano in causa l’indottrinamento nelle decine di migliaia di madrase ispirate e finanziate dalle monarchie sunnite del Golfo. Non mancano nel Paese gruppi locali influenzati da idee jihadiste, come Jamatul Mujahdeen Bangladesh, bandito da un decennio, ma ancora attivo con l’obiettivo di fare del Bangladesh una realtà governata dalla legge religiosa in senso islamico, la sharia. Una spinta apparentemente retrograda rispetto alla politica laicista perseguita dal premier Hasina Wazed, operata però con l’appoggio di 10mila aderenti e infiltrazioni nelle élite. A dimostrarlo, l’adesione di Rohan Imtiaz, tra i presunti terroristi di Dacca, figlio di uno dei leader nella capitale della Lega Awami, partito di maggioranza governativa.
Come sottolinea un missionario di lungo corso, in Bangladesh «le esigenze dei giovani estremisti crescono con la possibilità di soddisfarle». «Rampolli di famiglie ricche, che nulla negano ai figli, che li mandano in scuole prestigiose, possono meglio soddisfare le loro tendenze anche negative. A parte questo, ho visto gruppi politici attrarre giovani con somme di denaro, promesse di svago e vizi per farli sentire onnipotenti». Anche questo è parte del sostrato da cui è nata la violenza cieca di venerdì scorso e che si innesta su una tradizione di tolleranza, ma anche di militanza e di orgoglio dell’islam bengalese. È la tradizione delle rivolte contro gli abusi dei nababbi locali, quella della partecipazione alle guerre afghane contro i britannici, quella della nascita della Lega musulmana nel 1906 e del contributo dato alla formazione di uno Stato su basi islamiche, il Pakistan, separato dall’India indù il 15 agosto 1947. Quel Pakistan da cui il Bangladesh si è separato nel 1971 con una guerra di liberazione costata milioni di vittime. In sostanza, la pressione di al-Qaeda o di Daesh, se stimola alla conquista di un mondo oggi 'infedele', chiama anche per riflesso a ritrovare una centralità nell’islam asiatico che l’antico Bengala, oggi Bangladesh per la parte orientale, sembrava avere smarrito.