Opinioni

Maternità surrogata, fronte dell’umano. I figli non hanno prezzo Le donne non sono schiave

Francesco Ognibene mercoledì 6 novembre 2013
Un figlio può avere un prezzo? Pensiamoci bene: qualcuno che tira fuori soldi e qualcun altro che li incassa, in mezzo una vita umana commissionata, prodotta e venduta, spesso in base a un modello richiesto. Abbiamo fatto l’abitudine a molti abusi perpetrati a scapito della dignità umana, con le intenzioni apparentemente più nobili. E a forza di sentirne parlare, anche il mercanteggiamento della vita – tra provette e selezioni embrionali – è diventato parte degli scenari comuni nella vita pubblica, oggetto di campagne mediatiche per rendere sempre più ampia la libertà di movimenti per domanda e offerta. A fianco del fiorente negozio dei figli, intanto è però spuntata la bancarella delle madri a tempo determinato, donne che in cambio di denaro finiscono per cedere quanto hanno di più caro e prezioso: far crescere in sé una nuova vita. L’"utero in affitto" è un altro segmento del discount della vita, dove acquirenti e venditori sembrano pronti a tutto per soddisfare sogni e assecondare pretese. Tanto che chi ha allestito il nuovo commercio umano molto si agita per allargare gli affari, arricchendo la merce esposta, le offerte speciali e le iniziative per far conoscere il servizio. Dopo il figlio, ora sappiamo che anche la maternità ha una quotazione di mercato: si affitta una donna per nove mesi, usando il suo corpo come incubatore naturale per l’innaturale operazione di far crescere un figlio ordinato da altri e a loro destinato per contratto. E a parto avvenuto si ritira la merce sborsando da 8mila a 60mila dollari (e più) a seconda del potere di ricatto esercitabile sulla "mamma a termine". Perché, al netto delle ipocrisie, di questo si tratta: usare il rapporto di forza – economico, geografico, sociale – tra aspiranti genitori e gestante reale dettando le condizioni e spostando la scelta della mamma temporanea sul mappamondo a seconda delle disponibilità economiche, dal top di gamma negli Stati Uniti o in Gran Bretagna al low cost in India, Ucraina o Guatemala. Si chiama sfruttamento delle donne, umiliazione del loro corpo, sfiguramento del volto femminile proprio perché si colpisce il cuore stesso della persona, la generatività, il senso materno, il legame di sangue e psicologico con una creatura che cresce e si agita e vive dentro a una madre... Si paga il grembo di una donna come si affittasse un appartamento o una macchina. Ora questo obbrobrio lo si chiama "diritto" (al figlio, alla maternità-paternità, alla progenie) spacciandolo per una normale prassi contrattuale, una prestazione che qualcuno realizzerebbe persino volentieri e gratuitamente. Certo, 8mila dollari trasformano la vita di una giovane indiana reclutata nelle baraccopoli (basta che sia sana e non faccia tante storie se un’ecografia dovesse evidenziare anomalie "suggerendo" l’aborto). Ma non si può comprare la dignità, nemmeno se chi la cede dice di farlo senza pretendere nulla in cambio. E che la maternità surrogata vada espandendosi senza controllo – legalizzata o tollerata – sotto l’incalzare di una domanda sempre più esigente e variegata, con isolate voci che si levano a denunciare responsabilità e abusi, è un altro elemento che deve far riflettere tutti, a cominciare dai teorici dei diritti individuali assolutizzati e del "vietato vietare". I fatti emergono con forza, basta volerli raccontare e vedere. Ma il silenzio che grava su una pratica odiosa, come se fosse sostanzialmente accettabile, fa quasi pensare al sorgere di un nuovo tabù, un tema del quale è meglio non parlare perché con troppa evidenza emergerebbe lo stridore tra la dignità femminile conclamata e la condizione degradante nella quale vengono ridotte migliaia di donne nel mondo per assecondare il desiderio di un figlio espresso da parte di chiunque abbia soldi a sufficienza e si senta giustificato (legalmente o culturalmente) a "farlo", anzi a "farselo fare". Parlare senza censure di questo commercio, come intende fare ora anche il comitato «Di mamma ce n’è una sola» sorto ieri a Roma, vuol dire non solo impegnarsi perché mai in Italia sia consentita l’apertura di una filiale della multinazionale delle pance in affitto ma anche tener fermo un cardine di civiltà: la vita e la maternità non sono riducibili a oggetto che si può vendere e comprare. Anche se questo è ciò che oggi già accade in altre modalità, sempre disumane, aprire gli occhi davanti a una gravidanza in conto terzi può essere l’inizio di un ripensamento collettivo sul rispetto della nostra radice umana oggi più che mai necessario.