Simbolo irrinunciabile. La luce e i colori dell’arcobaleno patrimonio cristiano
Fu Isaac Newton a scoprire che la luce era la fonte di tutti i colori, in un primo pomeriggio del 1665 in cui, tornando dal mercato di Cambridge, dove aveva comprato un prisma di vetro, si mise a giocare con esso dentro la sua camera, al buio. Solo un filo di sole filtrava dagli scuri socchiusi della finestra. Muovendo e girando la pietruzza, finché non intercettasse quel raggio, egli vide che il punto d’impatto veniva a colorarsi di rosso, di giallo, di verde, di blu e di violetto. Il giovane Newton ne fu stupito e continuò a fare esperimenti con l’ansia di penetrare il segreto della luce. Dapprima scoperse cinque colori, poi, più avanti, ne definì sette, aggiungendovi l’arancione e l’indaco, e dando alla gamma cromatica, l’armonia di un eptagramma di note musicali. Il gioco della luce evocava l’arcobaleno, quel fenomeno straordinario che nessuno era riuscito ancora a spiegare: era, infatti, proprio lei, la luce, che, a contatto con le gocce di pioggia, come baci d’acqua appassionati, si rifrangeva in un arco colorato! Un effetto ottico, insomma, ma di vitale importanza.
Quel fenomeno celeste che appariva e scompariva repentinamente, senza che si potesse toccare, né trattenere, era un’autentica rivelazione. I Greci vi vedevano l’abito di Iris, la ninfa oceanina figlia di Meraviglia e di Splendore, che attraversava il cielo diretta sulla terra, messaggera degli dei. Ed è molto intrigante che nella Bibbia ci fosse già l’idea del legame tra la luce e l’arcobaleno. Quest’ultimo appare in uno dei testi più belli del libro di Genesi, alla fine dei racconti del diluvio: «Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi, e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne» ( Genesi 9,13-15). Racconto della fine, ma anche dell’inizio, poiché dopo la lunga glaciazione, il mondo rinacque, l’asciutto ritornò, la terra calpestabile riapparve e avvenne, in effetti, una nuova creazione: essa fu originata proprio da quell’arco sulle nubi con cui il Creatore mostrava l’intento di una nuova stagione del mondo. Come il varco che s’apre – nel parto – sul corpo della madre, tra le due colonne del sedile, così il 'segno' dell’arcobaleno: «Segno dell’Alleanza che io pongo tra me e voi, e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future» ( Genesi 9,12). Del resto anche nel primo racconto biblico della creazione (cf. Genesi 1,1ss), la luce è l’attrice indiscussa, prima creatura uscita dalle labbra di Dio: «Dio disse: sia la luce e la luce fu». Opera del primo giorno, principio d’ogni cosa.
L’arcobaleno è, dunque, quella luce che s’apre dentro e dopo una tempesta di morte; la concava culla della vita, il seno che – tra la terra e il cielo – riprende ad allattare le creature, come un prato di stelle che bucano le tenebre caotiche. Quell’arco luminoso rivela come il leukòs – il bianco – sia traccia sinfonica, fastello di molteplici, fecondi pigmenti. Per quaranta giorni e quaranta notti «eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra» ( Genesi 7,11-12) e immenso doveva essere il terrore delle coppie superstiti, acquattate nell’arca, quando: «le acque furono travolgenti e crebbero molto e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto il cielo, ogni essere che ha un alito di vita nelle narici morì, dagli uomini agli animali domestici, ai rettili e agli uccelli del cielo; le acque furono impetuose sopra la terra per centocinquanta giorni' (cf. Genesi 7,18-24). Alla fine dell’affanno, la luce aleggia sulle plumbee pareti del mondo: «Le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo furono chiuse, le acque andarono via via ritirandosi» ( Genesi 8,3). Il vento si alzò, le nuvole si diradarono e Noè aprì la finestra dell’arca. Giunge la quiete dopo la tempesta, silenzio di musica, vita che lentamente ricomincia a muoversi, rispunta, risboccia. I versi della poesia di Leopardi potrebbero fare da colonna sonora ai testi di Genesi che filmano la fine del diluvio: «passata è la tempesta odo augelli far festa (...) ecco il sereno rompe là da ponente alla montagna, sgombrasi la campagna...». E Noè che invia il corvo e, infine, la colomba a «mirar l’umido cielo» – sembra quell’artigiano che si fa su l’uscio, dopo la tempesta cosmogonica. Le montagne che riappaiono, la pace dopo il rombo incessante e oceanico del diluvio: come nella splendida campagna dell’infinito recanatese, dopo la pioggia la vita ricomincia a fluire su poggi e valli, purificata e fresca di una bellezza nuova. Questa è, infatti, la causa che la Bibbia dà del diluvio: la corruzione dell’umanità. Iniziando col fratricidio di Caino ai danni di Abele, essa aveva riempito di sangue la terra, al punto che Dio si era pentito di averla fatta. Ma un uomo, tra tutti, aveva il cuore fedele, era giusto dinanzi agli occhi di Dio. E fu proprio la bontà di quell’unico uomo a fermare il furore distruttivo del Creatore: fu Noè il primo metaforico, provvidenziale 'arcobaleno'! A lui il Creatore giurò: «Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno» ( Genesi 8,22).
L’arco tra le nubi diventa il simbolo della forza della fedeltà, della giustizia, della pace che l’uomo sa costruire nel mondo: da essa soltanto può rinascere l’umanità, scavando ancora e per sempre, tutte le possibili vie di futuro. Tra i grandi valori simbolici che l’arcobaleno biblico assume, preminente è, dunque, quello dell’alleanza che Dio stabilisce per mezzo di Noè: «L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra» ( Genesi 9,16). Un primitivo patto che anticipa e supera quello con Abramo e con Mosè, poiché coinvolge non solo Israele, non solo gli uomini e le donne, ma anche tutti gli altri esseri viventi. Un’alleanza che potremmo definire di 'ecologia integrale' in cui Dio si impegna a non distruggere la terra e l’uomo si impegna a non nutrirsi di sangue: «Non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue. Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello» ( Genesi 9,4-5). Quella curva colorata, allora, diventa l’icona di un anello diviso a metà, segno di un abbraccio, di un accordo, di un impegno per la fraternità universale. Lo spazio che essa apre, a tutto sesto, diventa il territorio franco per l’accoglienza e la presenza dell’altro. Un teatro di libertà e di rispetto, di relazione e di condivisione. Cerchio a difesa della vita, corda tesa contro le pressioni di ogni genere di malvagità.
Troppo cara è la simbologia dell’arcobaleno, troppo intima a tutta l’umanità, per poter essere appannaggio di qualcuno, per diventare una bandiera specifica, un brand esclusivo, la proprietà privata di un movimento, l’esproprio di un preciso pensiero. Per i cristiani rinunciarvi, per paura di fraintendimenti congiunturali, è davvero teologicamente impossibile. L’alleanza universale di Noè, si compie, infatti, in Gesù, che è «luce del mondo» e spezza le tempeste del peccato e della morte. Similmente e molto più di Noè, Gesù è quell’arcobaleno d’Amore innalzato a riconciliare il cielo con la terra, ponendo come ponte il suo corpo di luce. I simboli sono, per definizione, 'colorati' – come direbbe Pietro Citati – vale a dire multiformi, incroci di valenze vecchie e nuove, atti di unione di realtà diverse e complesse (da sumballo: 'tengo insieme'). Perché porgli dei limiti? Perché appropriarsene o privarsene? Perché avere paura di essere fraintesi? Bandire i simboli vorrebbe dire diventare muti e, nel caso specifico dell’arcobaleno, negare voce ai sussurri dell’anima: «L’alba e il tramonto erano i piedi dell’arcobaleno che misuravano il giorno, e lei vide la speranza, la promessa» (David Lawrence).