Nascerà a marzo. Si chiamerà Francesco. Ma già ha una storia alle spalle. In una mattina di luglio sua madre, sola, incinta, con una gravidanza a rischio, bussa all’ufficio di un’assistente sociale del Comune di Roma. Ha deciso per l’aborto in ospedale, poi le è mancato il coraggio e non si è presentata. Chiede aiuto. La risposta, raccontata ieri dalla donna a Avvenire, è scoraggiante: non possiamo far molto, non abbiamo risorse, pensi a quali difficoltà va a affrontare… Il giorno dopo per telefono arriva una proposta di alloggio per due mesi, "poi si vedrà". Due mesi, e poi? La logica conclusione della storia sarebbe un aborto. Invece la ragazza approda in un Centro di aiuto alla vita, di cui in Comune non le avevano parlato; ora è lì che, accompagnata, aspetta. In quell’ufficio comunale adesso minimizzano, negano. Però a nessuno è venuto in mente di dare un indirizzo, che magari era a dieci minuti di strada. Tutto si giocava in una mano concreta, nella Roma calda e vuota d’agosto; una mano qui e ora per un figlio – e non per una pratica.Non ci stupisce molto, questa piccola storia. Temiamo anzi che ci sia, nella sua banalità, un po’ dello spirito del tempo. Una donna sola, una gravidanza a rischio, i soldi che mancano: che follia. Beh, se proprio insiste, per due mesi c’è un tetto, poi vediamo… Come dire: sei sola. A chi ti sta intorno, quel bambino non interessa. Già parte male: fin dalla culla, un precario. No, non è solo Roma, e non è solo un’assistente sociale; è uno sguardo condiviso, indifferente, convinto in fondo che un figlio, se non è voluto, se non nasce in una situazione garantita, non è un bene, ma un peso. Un onere che ti impedirà di lavorare, che ti renderà più povero, che ti costringerà ai suoi ritmi, cancellando quei sabati e week end che a molti sembrano l’unico tempo per vivere davvero. Un figlio da sola poi, e da una madre cardiopatica, assurdo. La solitudine dei passi di quella donna, sui marciapiedi di Roma, dopo.Il fatto è che venire al mondo non ci sembra più una cosa buona, buona comunque. Siamo molto prudenti, e preferiamo impegni a tempo determinato. Mentre un figlio è per sempre. Che incognita, questa sola espressione, nel nostro mondo del precariato e dei divorzi veloci. "Per sempre": fa quasi paura.Così non stupisce che in una vigilia d’agosto e di ferie una donna si senta dare una risposta distratta. Che nessuno le dica almeno dove può andare. Che ritorni a casa con passi di piombo. Quante come lei, senza che nessuno ce lo venga a raccontare?C’è sul tavolo del governo l’agenda bioetica. Potrebbe essere una occasione per parlare di quei consultori in cui la parte preventiva della legge 194 non è mai stata davvero attuata. C’è una proposta di riforma del Forum delle associazioni familiari e del Movimento per la vita, che chiede che nei consultori venga offerta almeno una opportunità concreta per proseguire la gravidanza. La 194 non ne verrebbe toccata.Però sarebbe un segno, una scelta di campo: un "favor vitae", un affermare che ci interessa che i bambini nascano. Siamo così abituati a figli che a trent’anni non possono, o non vogliono, andarsene da casa e farsi una famiglia; così attenti a vezzeggiare i sogni di ricche madri ultracinquantenni, in cerca di una maternità in natura impossibile. Siamo così prudenti, così curvi su noi stessi, così poco coraggiosi. "Inverno demografico", è l’espressione usata l’altro giorno dal cardinale Bagnasco; e vengono in mente gli inverni di un tempo, in cui si stava chiusi in casa a consumare il raccolto – finché ce n’era. Quasi come noi; che crediamo garantito ogni diritto, e non pensiamo a come si vivrà, in un paese di vecchi.Un giorno di fine luglio, caldo; l’indifferenza, la disattenzione. Una donna molto sola per le vie di Roma. Poi un incontro, un destino diverso. Un bambino che nascerà. Ma quanti sarebbero, se lo si volesse davvero? Sarebbe bello, darebbe coraggio, dopo un’estate di vuota discordia, un segno di favore alla vita; a quella di chi deve nascere, e in fondo alla nostra, di uomini che non vogliono lasciarsi dietro il vuoto.