L'impegno. I caschi blu italiani in Libano: le radici e la storia di una missione
I ripetuti attacchi alla missione Unifil sono una ferita inferta non solo alle Nazioni Unite ma anche alla storia più nobile della politica estera italiana. I ministri Crosetto e Tajani hanno subito difeso, nel modo dovuto, non solo e non tanto l’esigenza di sicurezza dei nostri militari quanto il motivo della loro presenza in Libano. Ieri lo ha ribadito la premier Meloni. Si percepisce tuttavia, nel comune sentire, poca consapevolezza della ragione profonda che anima la missione di oltre mille giovani in divisa del nostro Paese. L’Italia è da sempre primo contributore di quella missione, nello spirito di una Costituzione che ripudia la guerra come mezzo di composizione delle controversie e ci pone invece in prima fila laddove lo strumento diplomatico riguadagna spazio operativo in teatri di guerra con le operazioni di peacekeeping.
Si può ricordare il ruolo straordinario svolto dal 1982 al 1984 dal generale Franco Angioni nel varo della missione Unifil 1 dopo la prima guerra libanese e quello del compianto generale Claudio Graziano, che ha avviato invece Unifil 2, nel 2007, dopo un altro drammatico conflitto, introducendo un metodo di mediazione permanente fra due Stati ancora in conflitto, che però avevano rinunciato – fino a pochi mesi fa, per oltre 15 anni – a farsi la guerra. Non casuale è la successiva permanenza dell’Italia, con poche interruzioni, a capo della missione con la ripetuta indicazione, da parte dell’Onu, di generali italiani: Serra dal 2012, Portolano dal 2014, e infine Del Col, dal 2018 al 2022, quando è subentrato lo spagnolo Sàenz.
C’è dunque un ruolo riconosciuto all’Italia dalla comunità internazionale nei processi di pace.
Un ruolo che ha antichi precursori e rimanda a una feconda contaminazione fra la missione profetica della Chiesa e il coraggioso protagonismo di politici cristiani.
Unifil è nata con la Risoluzione Onu 425 del 19 marzo 1978. Aldo Moro era da tre giorni nelle mani delle Brigate Rosse, ma questa missione, e il ruolo di capofila in essa affidato all’Italia, risente molto della sua azione diplomatica esercitata dal 1969 al 1976, prima da ministro degli Esteri (nel solco del predecessore, Pietro Nenni) e poi da presidente del Consiglio. Un’azione definita di “equidistanza attiva”, segnata da un memorabile intervento nel giugno 1969 all’assemblea dell’Onu, in cui Moro, parlando dei profughi palestinesi, li descrive come questione «umana, sociale e politica, la cui soluzione esige generosità, immaginazione e coraggio», da risolvere nell’interesse stesso della sicurezza di Israele. Affonda così lontano la dottrina dei “due popoli due Stati” sempre perseguita dall’Italia, assunta anche dal governo Meloni.
Poi, nel gennaio 1974, allo scoppio della guerra dello Yom Kippur, Moro dichiarò davanti alla Commissione Esteri del Senato che «i palestinesi non cercano dell’assistenza ma una patria», da costruire nel pieno rispetto dell’integrità del popolo israeliano.
Fece riferimento a questi temi anche nel memoriale dalla prigionia, citando il ruolo del colonnello Stefano Giovannone, uomo dei Servizi a Beirut. C’è chi vi ha intravisto, un po’ romanzato, un vero e proprio “lodo Moro” intervenuto a protezione del nostro Paese da attentati di matrice islamica, essendo l’Italia, effettivamente, l’unico Paese occidentale risparmiato dai grandi attentati avvenuti sulla scia di quello alle Torri gemelle. A proteggerci hanno contribuito in realtà sia l’impostazione non belligerante che Roma ha mantenuto dal Dopoguerra sia l’azione svolta dalla Santa Sede, anche sul piano diplomatico, azione sempre improntata al dialogo.
Si potrebbe in tal senso andare fino a inizio anni Sessanta, e cioè al ruolo decisivo svolto da Giovanni XXIII, l’autore della Pacem in terris, e da Giorgio La Pira, il sindaco santo, nel perseguire processi di pace che apparivano non meno disperati degli attuali: basti pensare alla crisi dei missili cubani, sventata a un passo dalla catastrofe nucleare. Per arrivare ai giorni nostri, alla missione esercitata, in teatri di guerra diversi, dalla Santa Sede e dai cardinali Zuppi e Pizzaballa.
Addolora particolarmente vedere la guerra infuriare nei luoghi dove il cristianesimo è nato. L’arcivescovo di Gerusalemme dei Latini ci vede un’indissolubile relazione fra la Croce e la Risurrezione, e la piccola comunità cristiana di Gaza ricorda a tutti che la fede cristiana con conosce luoghi e situazioni in cui la speranza sia preclusa.
I militari dell’Unifil sono lì a testimoniare questo, con la bandiera italiana che sventola: la speranza esiste ancora, anche in Medio Oriente, e non batte in ritirata.