Ormai lo sappiamo bene: c’è tutto un vocabolario personalizzato al quale il Papa ricorre per spiegare in modo persino tangibile quel che ha in mente, non disdegnando affatto i neologismi (ultimo la «santità pudorosa» coniato nel viaggio di ritorno dall’Armenia, per dire delle persone che fanno il bene, ma senza dare nell’occhio). Sono espressioni che gli appartengono come fosse impresso un copyright, accanto ad altre di uso corrente che utilizzate da lui assumono un sapore tutto personale. È il segno che il Papa va ascoltato con attenzione e non piluccato pensando che basti una citazione di terza mano per farsi una vaga idea e poi – persino – esprimere pensosi giudizi.Un esempio? Se vogliamo cogliere a fondo cosa (e come) Francesco dice e fa occorre avere la pazienza di andare in fondo alla conversazione con i giornalisti sul volo di domenica da Erevan a Roma, 10 complesse domande e altrettante articolate risposte. Anticipando lo spirito col quale, nel viaggio in Polonia per la Gmg di Cracovia, visiterà ad Auschwitz un altro memoriale, quello della Shoah, il più grande dei genocidi del Novecento, papa Bergoglio ha spiegato che vuole «andare in quel posto di orrore senza discorsi, senza gente, da solo, entrare e pregare», confidando poi che già chiede al Signore di concedergli «la grazia di piangere».Le lacrime chieste dal Papa come un favore speciale dicono del cuore e dello sguardo col quale Francesco scende dentro il dolore del mondo là dove questo ha scavato una faglia ancora lacerata.È accaduto a Redipuglia, a Sarajevo, a Tirana, a Gerusalemme, a Ground Zero, a Bangui, a Lesbo, e sabato ancora a Metz Yeghern, il luogo dove vive la memoria degli orrori consumati nell’odierna Turchia sul popolo armeno, oggetto un secolo dopo di dispute storiche e terminologiche, ancora radicalmente divisi nel definire se si trattò di «strage» o di «genocidio». Tra i due concetti c’è la stessa differenza che passa tra chi considera una tragedia come la conseguenza inevitabile di una guerra e chi invece rifugge le ricostruzioni
pro bono pacise non ci sta a girare le spalle come fecero le grandi potenze con un atteggiamento cinico ricordato dal Papa come una parte decisiva di quel «grande male». Al dolore tutt’oggi sanguinante di un popolo 'periferico' sulla mappa del potere globale, che ha sofferto a causa della sua antica fede cristiana per mano dei carnefici e di chi non li fermò pur sapendo cosa accadeva, il Papa dedica una definizione affiorata – è lui stesso a dirlo – nella preghiera: l’icona per definire gli armeni è «una vita di pietra e una tenerezza di madre», parole che scolpiscono il ritratto di chi molto ha patito ma senza mai tradire un Vangelo che educa alla misericordia, alla speranza, a una bellezza intrisa di nostalgia d’infinito. La consapevolezza che anima i discorsi e i gesti ascoltati e visti nei giorni scorsi – come l’immagine del Papa che domenica assiste alla divina liturgia presieduta dal catholichos Karekin II, quasi un fedele tra gli altri – dicono che le ferite dell’uomo si curano con la verità applicata con carità, affetto, umiltà e persino poesia, mentre le bugie diplomatiche alimentano solo nuovi focolai. Serve parlare chiaro, come il buon medico, tanto più chiamato a non edulcorare i fatti se opera in un «ospedale da campo » dove l’urgenza del dolore – anche quello inespresso – non consente di attardarsi in dibattiti accademici. È con questo stesso spirito che papa Francesco ha risposto sull’aereo a una giornalista americana che gli chiedeva se condivide il giudizio del cardinale Marx, a parere del quale – è la sintesi di Cindy Wooden – «la Chiesa cattolica deve chiedere scusa alla comunità gay per avere marginalizzato queste persone». Carità e verità per una ferita umana e un’attesa ecclesiale: il Papa ha estratto dal suo vocabolario parole su misura, con un ragionamento che va ascoltato per intero e legato alla domanda che l’ha ispirato. «Io credo che la Chiesa non solo debba chiedere scusa (...) a questa persona che è gay che ha offeso, ma deve chiedere scusa anche ai poveri, alle donne e ai bambini sfruttati nel lavoro; deve chiedere scusa di aver benedetto tante armi», di «non aver accompagnato tante scelte, tante famiglie », e per Chiesa «intendo i cristiani », e giusto perché nessuno si senta esentato Francesco per primo esclama: «Perdono, Signore!, è una parola che dimentichiamo». Prima che il viaggio del Papa in Armenia venga archiviato con sintesi sbrigative e interessate («Il Papa: la Chiesa chieda scusa ai gay», ha titolato un grande giornale), ascoltiamo Francesco senza la frenesia di etichettarlo: a parlarci non è un dispensatore di battute a uso dei media, ma un uomo coraggioso con le parole di un amico, le mani di un medico e il volto di un padre.