L'analisi . Hong Kong, salvare il modello di «un Paese e due sistemi»
La protesta a Hong Kong
Hong Kong è a un passaggio drammatico della sua storia. Qual è il suo futuro dopo che Pechino ha definitivamente approvato la legge sulla sicurezza nazionale contro i crimini di separatismo, sovversione, terrorismo e collusione con lo straniero compiuti nella ex colonia britannica? Non è un’approvazione arrivata all’improvviso. Hong Kong è infatti sotto la sovranità della Cina dal 1° luglio 1997, quando la Gran Bretagna l’ha ceduta alla Repubblica popolare cinese. Da allora è in vigore la «Basic Law» – frutto dell’accordo fra le due parti – che all’articolo 23 impone alle autorità di Hong Kong di legiferare, appunto, su tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il governo popolare centrale, furto di segreti di Stato, divieto di formazioni politiche guidate da stranieri o legate a organizzazioni o enti stranieri. Ma nessuna legge per applicare questo articolo è mai stata adottata: nel 2003 una proposta in questo senso venne lasciata cadere per la forte opposizione che suscitò.
Da molti mesi, com’è noto, a Hong Kong sono in corso dimostrazioni e proteste che invocano apertamente l’indipendenza, negando cioè la sovranità cinese sull’isola e il suo entroterra. A sostegno dei dimostranti sono intervenuti i «five eyes» – gli Stati Uniti e gli altri Paesi anglosassoni: Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e Canada – che ne hanno fatto un tema cruciale della 'nuova guerra fredda' contro la Cina, rendendo ancora più incandescente la situazione. Di fronte a tutto questo, le autorità di Pechino non hanno nascosto la loro crescente irritazione e hanno annunciato di voler intervenire. Ora lo hanno fatto, ed è iniziata una fase nuova della storia di Hong Kong.
Davanti a questa nuova situazione, gli Usa minacciano sanzioni, ma quelle adottate finora hanno peggiorato la situazione e finito per penalizzare gli abitanti del 'Porto Profumato'. Londra indica ai cittadini della sua ex colonia la via dell’emigrazione, offrendo a molti di loro la possibilità di trasferirsi in Gran Bretagna. L’Unione Europea ha deplorato la legge approvata da Pechino, pur senza appiattirsi sulle posizioni anglosassoni, ma non ha avanzato proposte.
A Hong Kong, intanto, c’è chi continua a manifestare, correndo rischi pesanti, ma vari leader delle proteste dei mesi scorsi si sono ritirati, ritenendo ormai impossibile continuare la loro battaglia. Non resta altro, allora, che denunciare Pechino davanti al mondo per aver violato l’impegno a rispettare il modello «un Paese due sistemi»?
In realtà, il governo cinese sostiene di aver rispettato tale modello, accusando viceversa i dimostranti che inneggiano all’indipendenza di averlo tradito. Pechino rivendica di aver agito in base all’articolo 18 della Basic Law che assegna la politica estera e altre materie riguardanti la sovranità della Repubblica popolare cinese alle autorità centrali, senza intervenire su una serie di diritti civili, economici, sociali e culturali garantiti da altri articoli dalla stessa Basic Law. Ovviamente, è inevitabile chiedersi se le esigenze della sicurezza nazionale finiranno per azzerare del tutto questi diritti.
Ma gli abitanti di Hong Kong non possono fare a meno di sperare che il modello «un Paese due sistemi» conservi ancora validità. Lo fa ad esempio Martin Lee, considerato il 'padre' di tutti i democratici di Hong Kong, che ha cambiato idea rispetto alle proteste del 2003. Prendendo le distanze dagli indipendentisti, insieme ad altri spinge oggi per una legge di applicazione dell’articolo 23, che riaffermi la competenza di Hong Kong almeno sui reati meno gravi riguardo alla sovranità. La nuova legge non riguarderebbe invece altri temi, pur previsti da questo articolo, per evitare di introdurre ulteriori divieti e sanzioni.
La libertà religiosa è un altro dei problemi che preoccupa molto gli abitati di Hong Kong. L’anziano cardinal Zen, oggi in pensione, ha espresso subito grande sfiducia nel mantenimento della libertà religiosa dopo l’adozione della legge sulla sicurezza nazionale. Ma non ha indicato prospettive. Diverso è stato invece l’atteggiamento assunto dalla voce più autorevole della Chiesa cattolica a Hong Kong, quella del cardinale John Tong, che dopo essere stato vescovo di questa diocesi dal 2009 al 2017 ne è stato nominato amministratore apostolico dopo la prematura scomparsa del suo successore monsignor Yeung. Nei mesi scorsi, mentre una parte dei cattolici di Hong Kong sosteneva apertamente le proteste, il cardinale Tong ha soprattutto condannato le violenze ed esortato al dialogo, forse presagendo come sarebbe andata a finire.
Ma, alla vigilia della decisione di Pechino, ha preso posizione sottolineando che la nuova legge non può contraddire la libertà religiosa garantita dall’articolo 32 della Basic Law e che il rapporto dei cattolici con il Papa non può essere equiparato a quella con un’autorità politica 'straniera'. Questa 'opinione' è stata espressa con pacatezza, ma ciò non significa che Tong non sia consapevole della gravità dei problemi. Rivela piuttosto il suo proposito di inserirsi nei tentativi in corso a Hong Kong per limitare gli effetti negativi della nuova legge sul modello «un Paese, due sistemi» e, difendendo la libertà della Chiesa cattolica, punta ad aiutare indirettamente anche ogni cittadino di Hong Kong.
Il cardinale Tong ha dato voce in questo modo a preoccupazioni che sono anche della Santa Sede. E lo ha fatto adottando un linguaggio che Pechino può capire. A differenza di altri abitanti di Hong Kong, plasmati da una formazione soprattutto occidentale, conosce bene il valore non solo storico e politico ma anche culturale ed emotivo rivestito per i cinesi da un senso fortissimo della sovranità. Ereditato da una storia millenaria, tale senso non comporta necessariamente una politica estera 'imperialista' ma lega strettamente sovranità e identità: se Hong Kong (e lo stesso approccio vale per Taiwan) non è unita alla Cina, è come se mancasse un pezzo di identità cinese. Nel 1949 le circostanze storiche non permisero a Mao Zedong di annettere alla Nuova Cina la colonia britannica, benché la permanenza di questa sotto sovranità britannica fosse avvertita come un’espressione insopportabile delle umiliazioni che gli europei continuavano a imporre al popolo cinese. Da allora è cominciata una attesa impaziente del ricongiungimento dell’isola e del suo entroterra alla madrepatria, condivisa non solo dai governanti di Pechino ma anche da gran parte dell’opinione pubblica. Questa attesa è sembrata compiersi nel 1997 con il passaggio di Hong Kong sotto sovranità cinese, seppure con la formula «un Paese, due sistemi». Ma le manifestazioni per l’indipendenza di Hong Kong degli ultimi mesi sono sembrate a molti cinesi un tentativo per riportare indietro l’orologio della storia.
La nuova legge sulla sicurezza nazionale ha drammaticamente confermato che, comunque la si pensi, non è possibile ignorare tutto ciò. Il cardinale Tong lo sa. Ha scelto perciò di indicare una strada che tenti di conciliare rispetto della sovranità cinese e vita della Chiesa di Hong Kong. Si è assunto questa responsabilità, né lieve né gratificante, anche per aiutare i cattolici hongkonghesi ad affrontare più uniti la situazione quando, tra non molto, sarà nominato il suo successore.