Le forti parole pronunziate dal presidente della Repubblica nel corso della sua visita a Napoli ripropongono all’attenzione del Paese, e soprattutto delle regioni del Sud, l’antica e complessa "questione meridionale". Davanti all’enorme e crescente divario che separa il Nord e il Mezzogiorno riguardo al tasso di crescita, ai livelli di occupazione, all’efficienza dei servizi fondamentali, Napolitano ha osservato che "non si può non trarre da ciò materia di seria riflessione sulla validità delle politiche portate avanti nell’ultimo quindicennio dallo Stato e dalle istituzioni regionali e locali". Forse il problema è ancora più a monte, nel tempo. Oggi sono in molti a pensare che la logica assistenzialista che, fin dal dopoguerra, ha caratterizzato l’atteggiamento dei governi nei confronti del Mezzogiorno abbia contribuito a fissarne una identità e una collocazione distorte, favorendo stili perversi di parassitismo e di clientelismo. La stessa "questione meridionale" sarebbe, in quest’ottica, un alibi pericoloso di cui sbarazzarsi. Su questa linea si capisce il titolo di un libro uscito qualche anno fa, che suona, provocatoriamente, «Abolire il Mezzogiorno». Non si tratta, evidentemente, di chiudere gli occhi sui problemi, o di negare l’importanza di interventi esterni, ma di prendere atto della profonda verità enunciata, già nel 1989, dal documento dei vescovi italiani Chiesa italiana e Mezzogiorno: «Sono necessari, e doverosi, l’aiuto e la solidarietà dell’intera Nazione, ma in primo luogo sono i meridionali i responsabili di ciò che il Sud sarà nel futuro». Si pongono esattamente su questa linea le osservazioni del presidente Napolitano quando parla della necessità «di una forte capacità di autocritica e di autoriflessione nel Mezzogiorno». È inutile illudersi che basti investire risorse: lo ha fatto lo Stato italiano, lo ha fatto la Ue, ma se il denaro vien gestito da una classe dirigente che se ne appropria, direttamente o indirettamente, facendolo disperdere in una miriade di rivoli clientelari e particolaristici, alla fine il frutto per il bene comune è pressoché nullo. Il problema è «non solo e non tanto di quantità di risorse, ma di qualità dell’azione pubblica e di miglioramento del contesto generale». Perciò, ha sottolineato Napolitano, è «assolutamente indispensabile che cambino i comportamenti di tutti i soggetti, pubblici e privati, che condizionano negativamente il miglior uso delle risorse disponibili». A questo proposito, il presidente ha denunciato con forza il fenomeno, «che è sotto gli occhi di tutti» – e che peraltro non riguarda solo il Sud – di un «impoverimento culturale e morale della politica», e ha sottolineato l’«assoluta necessità di ripensare il rapporto cultura-politica». Se non si risolve questo problema di fondo, ogni grido di allarme, ogni rivendicazione diventano mero vittimismo: «Si possono denunciare rischi, si possono paventare esiti infausti del federalismo fiscale, ma se ci si sottrae ad un esercizio di responsabilità, per quello che riguarda l’amministrazione della cosa pubblica nel Mezzogiorno, non si hanno titoli anche per resistere alle impostazioni più perverse o più pericolose del federalismo fiscale». Ciò non giustifica un abbandono del Sud da parte dello Stato: «Mi pare sia clamorosa – ha detto il presidente – la caduta di attenzione, di interesse, di volontà politica nei confronti del Mezzogiorno». Ci sono tagli di 11 miliardi di euro, nel periodo 2007-2013, dieci dei quali per il Sud, che rischiano di colpire, insieme agli sprechi, anche i germi virtuosi che pure si stanno sviluppando. «Scegliendo di tagliare in modo più o meno uguale le voci di spesa, si produce la conseguenza di cristallizzare le peggiori tendenze che si sono sedimentate nella spesa pubblica e nel bilancio dello Stato». Non c’è più tempo da perdere. È ora che ognuno faccia la sua parte. Ma le classi dirigenti meridionali sono avvertite: l’appello alla solidarietà non può diventare un alibi. È tempo, per il Mezzogiorno, di dimostrare che sa camminare anche con le proprie gambe.