Lettere ad Avvenire. Quelle foto e l'abisso su cui si è chinato Cristo
Caro Avvenire,
quello che è successo in Siria con il bombardamento chimico non può più essere nascosto e tollerato. La gente non può più rimanere tranquilla davanti a questi orrori... non si può più. Dobbiamo star male giorno e notte davanti a queste tragedie. Guardando le foto pubblicate sui giornali, mostrate dai tg, quegli sguardi senza vita dei bambini (che tutti dovrebbero riguardarsi più volte al giorno) chiediamoci: dove è l’uomo? Fate vedere, “urlate” quelle foto.
Sì, guardiamole, quelle foto. Ci fa male, guardarle, ma non distogliamo gli occhi dal piccolo nudo, bello come un Gesù Bambino, che fissa attonito l’obiettivo: sbalordito dal dolore, dall’aria che gli manca. Stupefatto agnello che domanda “perché”. Guardiamo quelle facce di bambini illividite, la bocca spalancata a cercare invano un respiro. Le abbiamo viste tutti in tv quelle immagini; ma forse, in tanti, abbiamo chinato gli occhi, e cercato di dimenticare. Non conta qui chi, quale esercito sia stato, e perché. Contano semplicemente quelle decine di morti soffocati dal gas. Sono loro, che dobbiamo guardare. Forse che, dirà qualcuno, possiamo fare qualcosa se in Siria c’è un massacro? Noi, singoli individui, no. È una scacchiera dei grandi potenti la Siria, persa nel suo terribile gioco. E tuttavia, noi dobbiamo avere il coraggio di non distogliere gli occhi. Perché solo così possiamo commuoverci e immedesimarci, e desiderare di pregare: per quei bambini, per le loro madri, per quel povero stremato Paese. Ma non solo: in questi giorni di Quaresima non possiamo essere distratti. Dobbiamo guardare in faccia il male. Perché solo così capiremo su quale abisso si è chinato Cristo, salendo sulla Croce, e quale nemico ha sfidato. Non è, Pasqua, una gentile e innocua festa di primavera: è martirio, morte, notte del sabato, e risurrezione. Ogni volto dei bambini di Idlib testimonia quanto feroce e grande era, quel giorno, il nemico.
E che peso immenso gravava, sul Golgota, sulle spalle di Cristo. E quanto era necessario il suo sacrificio. Delle immagini di un tg, l’altra sera, me ne è rimasta in mente una in particolare: un giovane padre voltato di spalle, con in braccio una bambina i cui lunghi capelli pendevano nel vuoto. La figlia sembrava immota, e leggera come una foglia, e il giovane padre camminava lento, come se non ci fosse più niente da fare, quasi che docilmente la consegnasse alla morte. Allora d’istinto ho pensato a Cecilia. Cecilia, la bambina che la madre porta al carro dei morti di peste, nei Promessi Sposi, Cecilia vestita di bianco, nel sudicio grigiore di una Milano disfatta. Ho pensato che quella madre e il giovane siriano di ieri si somigliavano nella andatura composta, e nella delicatezza con cui reggevano il loro tesoro. È ancora Cecilia, c’è, ogni giorno, una nuova Cecilia. Se ne incrociamo il volto, troviamo almeno il coraggio di guardarla. Solo così saremo consci del male di questo nostro mondo, e del bisogno che abbiamo, di essere salvati. Da un Dio morto in Croce e sceso agli inferi. E risorto, la pietra della tomba scardinata. A Pasqua: che è lo scontro fra la morte, e la vita e la speranza; e non una gentile, tradizionale festa di primavera.