Il confronto quotidiano con la novità. Guardare i volti di una classe è faticoso, ma non ci stanca
C’è un quadro di Boccioni di cui mi sono innamorato. Si intitola "La strada entra nella casa", dipinto nel 1911. Una donna, le cui fattezze sono della madre del pittore, affacciata al balcone guarda la città dall’alto e, in un movimento a spirale di edifici e uomini dediti a diverse attività, la strada sembra riversarsi come un fiume danzante dentro la casa, attraverso lo sguardo vigile e attento della donna. Guardandolo mi sono chiesto: come guardiamo la strada o come lei entra nel nostro sguardo? Lo sguardo stanco di molti, la lamentela come tema dominante dei discorsi, il disincanto sulle cose più belle, l’amore in primis, mi suggeriscono che tutto, al contrario di quel quadro, diventa immobile, vecchio, ripetitivo, incolore, stantio. La grande promessa di vita sembra non poter esser mantenuta. Il paradiso si manifesta in singoli e fugaci istanti di pienezza non in qualcosa di duraturo e stabile. Cercare questi istanti è la goccia di miele nell’esilio? Dov’è il nuovo che dà vita a ogni cosa in ogni momento del giorno e in modo duraturo? Devo rassegnarmi all’opacità del quotidiano o c’è altro?
Solo il nuovo sconfigge la routine, solo il nuovo dà sangue a ciò che diventa esangue. Per questo è bello innamorarsi: il cuore si rinnova e una ventata di luce e freschezza ci ricorda per cosa siamo fatti. L’eternamente uguale invece è l’inferno. Per questo la vigilanza (vegliate!) è il requisito primo richiesto all’uomo che voglia essere uomo: la sua disponibilità totale al presente, l’apertura elastica al dono di ogni istante, qualsiasi cosa contenga. Agostino chiamava "attenzione" la presenza del presente, rispetto a quella del passato (memoria) e del futuro (attesa). La guerra che dobbiamo condurre ogni giorno è proprio quella contro l’abitudinarismo, contro il farsi andar bene la stanchezza del cuore e dell’amore, per mancanza di vigilanza, di attenzione. La pace è frutto della guerra contro la tiepidezza che rende tutto incolore, noioso e ripetitivo. Ma come si fa a mantenere questa disposizione del cuore a inaugurare ciò che tocca? A trasformarlo in gioia duratura e fedele? La strada è segnalata in poche parole che leggo e rileggo in questi tempi di crisi: «Guarda (dice l’originale greco, più spesso tradotto con "ecco"), io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). Così Dio dice nell’Apocalisse all’uomo impaurito dal fallimento, dalla stanchezza, dalla crisi. L’uomo da solo non può inaugurare, rinnovare: ha bisogno di ricevere questa novità istante per istante, e scoprire che ogni momento è pieno di questa novità che può baluginare solo raramente se procurata dalle nostre forze esigue (tutta l’arte vive di questo slancio, enorme anelito di apertura al mistero della creazione, così percepita come dono).
Ma quel verbo all’imperativo («Guarda»), a differenza dell’azione divina che è al di fuori della portata dell’uomo (fare nuove tutte le cose: proprio tutte, uno sguardo, un amore, un lavoro, una persona, un dolore, un fallimento...), segnala lo spazio affidato all’uomo verticale: guardare. Per accedere al rinnovamento continuo di tutte le cose, alla primavera che ogni istante contiene anche se minacciato da stanchezza e opacità, bisogna essere condotti al piano di chi vede veramente, ricordando quello che già Montale lamentava nei suoi versi: «Gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede». Si scorna chi crede che la realtà sia solo quella che si vede, perché la realtà è invece quella che ci viene concesso di "guardare". Quello che si vede è il trascorrere delle cose umane in un flusso che inevitabilmente perde forza, slancio, vigore. Quello che si guarda è invece il legame con chi rende viva ogni cosa in questo momento, anche la più fragile e stanca. Ma c’è bisogno di me, punto di contatto tra la fonte che rinnova e la realtà da rinnovare. Sono io che entro in classe, che incontro un genitore, che correggo un compito, che scrivo una pagina, che ascolto un amico, che risolvo un problema, che cucino un piatto di pasta, che provo il dolore di un fallimento, di un errore, di un tradimento, di un turbamento, di un peccato. Sono io quella congiunzione tra l’effimero e la realtà, e in me può compiersi la trasformazione di ciò che è vecchio in ciò che è nuovo, non grazie a me, ma attraverso di me. Purché io guardi. Io guardi veramente le cose. È qualcosa che a livello umano gli artisti sperimentano, perché il loro guardare è uno dei gradini di questo invito in cui naturale e soprannaturale possono toccarsi.
Raymond Carver, maestro di attenzione nei suoi racconti e poesie, scriveva «si possono descrivere delle cose, degli oggetti quotidiani, usando un linguaggio comune, ma preciso – una sedia, una forchetta, la tendina di una finestra – e dotare questi oggetti di un potere immenso, addirittura sbalorditivo». La scrittura è veglia dei sensi, prima ancora che segno sulla pagina. Va oltre il poeta e premio Nobel D.Walcott, che del modo di dipingere di Pissarro, ne Il levriero di Tiepolo, dice: «Ogni pennellata era intrisa di quell’assenza; con regolare, quieto dipingere / costruiva il suo azzurro. Era questo il suo modo di pregare». Il poeta-pittore intuisce che guardare, strumento primario del suo lavoro nel mondo, è pregare: vigilare, custodire, inaugurare ogni cosa. L’arte ci ricorda, fissandolo nella materia, per cosa sono fatti i nostri occhi: la novità di tutte le cose che in questo istante Dio opera, silenziosamente, lievemente come la brezza di Elia.Il pieno compimento di questa possibilità, secondo l’invito della Rivelazione-apocalisse, è però un dono: si chiama preghiera (vigilanza). Una preghiera continua, costante, importuna ci viene chiesta, perché il presente richiede attenzione continua. Non come una prestazione impossibile: non è un moralismo utopico, perché la preghiera non è una prestazione, ma un prestito di occhi e cuore, che sono la radice degli occhi. È Colui che dice di far nuove tutte le cose che la rende costante, continua, importuna, inesausta. Io posso solo ricevere questa possibilità aprendomi ad essa e vedrò tutto rinnovarsi sotto il mio sguardo, non per magia, ma per caduta di paoline squame dagli occhi e scorgere ciò che io non potevo vedere (Danielou scrive che i tre della Trasfigurazione sul Tabor videro come stavano le cose in realtà, per grazia furono resi meno ciechi).
Questo comporta la fatica buona del rimanere aperti, compatibile con la gioia, ma non con la stanchezza, col disincanto, con l’abitudine. Guardare tutti i volti di una classe ogni giorno in modo unico è faticoso, ma non stanca. Allattare il bimbo è faticoso, ma riempie. Questo guardare il rinnovarsi di tutte le cose che tocchiamo è ciò che abbiamo da dare ad un mondo stanco. Un cristiano che non prega (veglia) in ogni istante, attraverso ciò che sta facendo, rapidamente perde smalto, perché ha perso il suo legame con la fonte, con la vite/a. Non ha più nulla che lo rinnovi, non può vedere più nulla, perché non guarda più nulla. La meraviglia di una continua novità, quella che ci prende di fronte ad un panorama alla fine di una lunga camminata, quella che ci afferra nelle movenze della donna di cui ci innamoriamo, quella che ci spiazza nel sorriso di un bambino, è la possibilità data in ogni momento a ciascuno di noi. È quello che la strada chiede a quella donna affacciata al balcone nel quadro di Boccioni: dare senso e casa al caos di quella strada. Grazie a quel «guarda» ogni giorno mi stanco, ma non mi annoio. Ho il cuore e gli occhi pieni di una meraviglia che nessuno può strapparmi, perché non l’ho messa io nelle cose: il loro reale rinnovarsi è lì disponibile per i miei occhi liberati dalle squame. Il mio compito, a volte faticoso, è goderne. E poi raccontarla.