Nella crisi finanziaria ed economica che stiamo vivendo c’è una responsabilità specifica del sistema bancario, internazionale e nazionale. Le grandi banche sono piene di titoli, privati e pubblici, i cui valori sono sempre più nominali (di carta) e sempre meno reali, e quindi sempre meno affidabili e sicuri. Le grandi banche detengono poi, direttamente e indirettamente, il controllo di molte grandi e piccole imprese, e ne determinano spesso gli indirizzi e le strategie. Per non parlare dei risparmi delle famiglie. Una crisi del sistema bancario non è dunque soltanto una crisi finanziaria, ma è direttamente anche una crisi economica (impresa), sociale (famiglie) e politica (Stati). Ovviamente esiste ed è rilevante anche la direzione inversa di questo meccanismo critico, cioè gli stili di vita consumistici delle famiglie occidentali, comportamenti speculativi delle imprese e sprechi degli Stati che hanno peggiorato la "trappola di povertà" nella quale siamo precipitati. Resta comunque vero, e troppo poco sottolineato dal dibattito pubblico, che questi ultimi anni stanno mostrando che il sistema-banca è gravemente malato, e con esso l’intero sistema sociale. E in tutto questo esiste una precisa responsabilità ideologica e legislativa, che risale all’inizio degli anni Novanta, alla temperie ideologica di entusiasmo per il "
laissez faire, laissez passer" che fece seguito alla caduta del Muro di Berlino. Nel 1993 fu infatti cambiata la legge bancaria italiana del 1936 che, anche a seguito della grande crisi del 1929, aveva introdotto la distinzione tra banche commerciali e banche di credito speciale, modificando la legislazione precedente basata sulla "banca universale". L’esperienza della crisi aveva mostrato che banche commerciali, cioè le banche che raccolgono il risparmio e lo prestano alle imprese, vanno sottoposte a specifica tutela, legislazione e controlli, poiché svolgono una fondamentale funzione di interesse generale. La legge del 1993 ha di fatto re-introdotto la banca universale, sulla base dell’assunto ideologico che la banca è un’impresa come tutte le altre, e quindi deve essere libera di operare nei mercati senza lacci e lacciuoli, e di massimizzare, come tutte le imprese, i profitti. Non dico che la legge bancaria del 1936 non andasse riformata, anzi: c’era in quella legge un’eccessiva enfasi statale che andava necessariamente corretta e ridimensionata. Ma l’eliminazione di quella antica distinzione tra banche commerciali e banche speciali, con l’ideologia economica che la sottende, è tra le principali cause della crisi che viviamo, in Italia e nelle altre economie avanzate (dove abbiamo avuto più o meno la stessa tendenza). E così le banche hanno operato come tutte le imprese, hanno fatto profitti, e tanti, troppi. Prima della crisi il settore bancario era tra quelli con più alti tassi di profitto dell’intera economia: un’anomalia grave, se è vero che la banca, almeno quella commerciale o tradizionale, dovrebbe essere per natura un’impresa civile, cioè un’istituzione che non ha come scopo la massimizzazione del profitto, ma garantire l’accesso al credito e la gestione efficiente dei risparmi, che sono interessi generali troppo delicati e cruciali per metterli in balia dei valori trimestrali dei profitti. Quando oggi uno Stato o l’Europa decidono di salvare una banca stanno salvando due realtà ben diverse tra di loro che però – e qui sta il punto! – coesistono all’interno della stessa istituzione bancaria: stanno salvando la banca commerciale, che va necessariamente salvata perché amministra i nostri risparmi e finanzia le imprese, ma stanno salvando anche la banca d’affari speculativa, che invece se insolvente deve essere lasciata fallire per il bene del mercato e della società. Non è né economico né etico usare le tasse della gente che lavora per salvare gli speculatori, per di più da parte di Stati sempre più indebitati. Dentro le nostre grandi banche (non tutte ovviamente), anche quelle nazionali, convivono queste due anime: quella della filiale sottocasa del banchiere umano e amico, e quella dell’ufficio a Monaco della stessa banca che gestisce operazioni speculative off-shore. Il problema cruciale, e per ora forse insolubile, è che oggi non riusciamo più a separare il grano dalla zizzania, ma ogni tanto dovremmo almeno dire ad alta voce che il grano non è la zizzania, e magari attrezzarci con nuove leggi perché un domani prossimo questa separazione possa essere fatta. La finanza e le banche sono troppo importanti per lasciarle solo agli addetti ai lavori. Lo abbiamo fatto per troppo tempo, ma è ora che noi cittadini torniamo ad "abitare" questi luoghi.