Una grande confusione si addensa sotto i cieli del Medio Oriente. In apparenza una "coalizione dei volenterosi" che vede coinvolte oltre venti nazioni – dall’Iran all’Arabia Saudita, dai Paesi del Golfo agli Stati Uniti, senza contare la Russia, ultima in ordine di ingresso, ma prima fra tutti per determinazione e mobilitazione – è schierata (se pure in ordine sparso) contro l’Is. Per alcuni osservatori internazionali si tratta di «una guerra mondiale non dichiarata»; valutazione, questa, un po’ esagerata, ma è altrettanto azzardato paragonare questo
rassemblement di nazioni in guerra contro l’Is a quelle coalizioni molto più coese che nel 2003 mossero guerra all’Iraq di Saddam Hussein o nel 2011 contro la Libia di Gheddafi. Quella attuale di fatto è un crogiuolo di interessi spesso divergenti e in qualche caso diametralmente contrapposti il cui unico punto di accordo è la comune visione del pericolo costituito dal sedicente Stato islamico, niente di più. Vediamo perché.Formalmente la campagna militare è guidata dagli Stati Uniti, ma già al vertice dell’amministrazione Obama c’è una divergenza di vedute fra il
commander in chief e il suo segretario di Stato: come scrive il
New York Times, «Obama sembra affrontare la questione della Siria con il distacco di un accademico, mentre Kerry, forse perché ha una grande considerazione delle proprie capacità diplomatiche, la considera una cosa che può risolvere». Risultato, un attendismo che per anni ha cercato di gestire la crisi siriana senza avviarla a soluzione. Una crisi che si è complicata nel momento in cui la Russia (che si proclama legittimata a intervenire in quanto ha ricevuto ufficiale richiesta di assistenza militare da Damasco) è scesa in campo schierandosi di fatto come Lord Protettore non solo di Bashad al-Assad e della nomenklatura alawita (la posizione di Mosca è la stessa fin dagli anni Settanta), ma di tutto il fronte sciita, con in testa l’Iran e a seguire gli hezbollah libanesi: di fatto un asse che va da Teheran a Baghdad fino a Damasco. Non per nulla Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Giordania e Bahrein storcono il naso di fronte all’intervento russo in Siria, considerando l’Iran «parte del problema, che quindi non può essere parte della soluzione». Iran e Russia tuttavia criticano apertamente – e da questo punto di vista non senza ragione – la campagna militare guidata dagli Stati Uniti, in quanto non è riuscita fermare l’avanzata dell’Is, o comunque non in maniera apprezzabile. Lo stesso Ban Ki-moon non manca di rilevare come il numero dei
foreign fighters (i cittadini occidentali o residenti in Occidente che si schierano con lo Stato islamico) sono aumentati del 70%, grazie soprattutto alla capillare propaganda dell’Is attraverso i siti internet.Ma il nocciolo vero del problema è e rimane uno solo: Assad. Washington e alleati ne chiedono l’uscita di scena, Mosca e il mondo sciita rispondono che eliminando Assad si aprirebbe definitivamente la porta allo Stato islamico in tutta la Siria. In realtà, come osserva il segretario generale dell’Onu, sono cinque i Paesi che hanno la chiave per poter mettere fine alla guerra: Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Iran e Turchia. «Fino a quando le parti non faranno compromessi tra loro – scandisce – è inutile aspettarsi cambiamenti sul terreno».Sorvolando – è il caso di dirlo – sul rischio assai concreto che negli ormai affollati cieli siriani vengano a contatto per errore i cacciabombardieri russi con quelli americani, sauditi, francesi (Parigi sembra eccellere nelle avventure solitarie e mai coordinate con gli alleati) e magari israeliani, è abbastanza arduo immaginare che la grande coalizione anti-Is che Mosca sta per proporre al Consiglio di sicurezza del Palazzo di Vetro – e nella quale verrebbero coinvolti sia l’Iran sia il governo siriano – possa accontentare gli appetiti e rimuovere le diffidenze di tutti gli attori coinvolti. Lo Stato islamico, è vero, è circondato (come dice Obama) e assolutamente fragile sul piano militare. Ma più fragile ancora fino a oggi lo è stata la grande coalizione che dovrebbe sconfiggere il nuovo "califfo". Un ritardo il cui prezzo in vite umane e in milioni di profughi è sotto gli occhi impotenti del mondo.