Definire la natura del governo Monti è operazione al tempo stesso facile e complessa. La configurazione tecnica della compagine ministeriale è infatti il dato più chiaro, che nella storia italiana ha un solo precedente, il ministero Dini formato nel gennaio 1995, con una composizione molto simile a quella attuale (alti funzionari, professori universitari, manager). Ed essa è confermata dalla totale assenza di personalità politiche, oggetto, come è noto, di discussioni e veti nelle ultime 24 ore della crisi.
Questo dato distingue il governo Monti sia dai ministeri Amato I (1992-93) e Ciampi (1993-94), sia dai numerosi governi di tregua e a termine succedutisi nella storia del dopoguerra, nei quali la composizione era comunque in prevalenza politica.
Oltre che un governo tecnico, però, quello appena formato è anche altre due cose. Esso è, quanto all’iniziativa politica che lo ha generato, un governo del presidente. Il ruolo svolto dal capo dello Stato prima e durante la crisi è stato molto significativo.
Non solo il presidente della Repubblica ha condotto consultazioni informali con i leader politici negli ultimi giorni di ottobre, ma egli ha anche 'garantito' le dimissioni di Berlusconi nella difficile settimana fra martedì 8 e sabato 12 novembre, fra l’annuncio e l’operatività dell’uscita di scena del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Il presidente, inoltre, ha pilotato la scelta di Monti, sia con la nomina a senatore a vita mercoledì 9 novembre, sia con una serie di interventi pubblici mirati e, alla fine, probabilmente con una partecipazione non solo formale alla scelta dei componenti del governo (attesa l’inusuale durata – due ore e mezza – del colloquio con il senatore Monti in sede di scioglimento della riserva e di nomina dei ministri).
In terzo luogo, il governo Monti nasce come un
governo di grande coalizione atipico.
Anche se la politica ha fatto un "passo indietro" rispetto alla composizione del governo, la base parlamentare del nuovo esecutivo è estremamente ampia, e include le tre principali forze politiche. Ciò ricorda un po’ il governo Ciampi del 1993, in cui entrarono per la prima volta alcuni ministri verdi e comunisti, sia pure per uscirne pochi giorni dopo, in seguito alla mancata concessione di alcune autorizzazioni a procedere da parte della Camera. Ma forse il precedente più curioso può essere trovato nell’esperienza costituzionale britannica e in particolare nella grande coalizione formatasi nel 1931 a seguito del crollo della sterlina e che portò a un governo Macdonald composto da conservatori, liberali e laburisti, anche se questi ultimi finirono per uscirne rapidamente, pur esprimendo il primo ministro.La grande coalizione è in fondo l’esito della crisi meno atteso al momento della sua apertura ed è anche oggetto di un grande interrogativo circa la sua effettiva tenuta. La grande coalizione è atipica proprio perché si delinea come una convergenza parlamentare, ma senza la partecipazione al governo. Inoltre – a differenza delle grandi coalizioni austriache e tedesche, che nascono sulla base di accordi di governo estremamente dettagliati – quella guidata da Monti nasce senza un programma, o, quantomeno, prima che il programma sia reso noto, visto che ciò accadrà a breve in Parlamento.Ma con questo aspetto siamo al nodo scoperto della crisi: la debolezza dei partiti. Qui sta il vero buco nero della situazione costituzionale italiana, ove la crisi dei partiti, iniziata negli anni Settanta, non si è mai chiusa. Il loro ruolo di sedi di selezione della classe dirigente, di elaborazione di progetti di governo e di mediazione con la società non è mai stato in crisi come oggi. Il 'sostegno nell’assenza' al governo Monti è al tempo stesso segno della crisi dei partiti e l’ultima opportunità per un cambiamento. Anche per questo le questioni politico-istituzionali (riforma dei partiti e riforma elettorale), passate in secondo piano nel contesto economico attuale, sono destinate a costituire un capitolo importante delle vicende dei prossimi mesi.