La scissione del Popolo della libertà e il passaggio all’opposizione della rinata Forza Italia ha senza dubbio aperto una fase nuova nella vita del governo Letta e più in generale della XVII legislatura. L’esecutivo mantiene la maggioranza in entrambe le Camere, ma ha perso la caratteristica di governo di grande coalizione. Quali passaggi procedurali sono necessari, dal punto di vista costituzionale, di fronte a un evento del genere? A questo quesito è necessario dare una risposta articolata su più livelli di ragionamento. In un’ottica di stretto diritto costituzionale, un governo è tenuto a dimettersi solo quando sia sconfitto su un voto formale di fiducia (mozione di fiducia iniziale, mozione di sfiducia, cui si aggiunge la questione di fiducia), oltre che – in virtù del principio democratico – all’indomani delle elezioni politiche. Ma la prassi della “Repubblica dei partiti” aveva previsto vincoli ben più rigorosi e negli anni fra il 1948 e il 1992 il governo si è in genere dimesso tutte le volte in cui la coalizione che lo sorreggeva perdeva uno dei suoi partner. Per ricordare un esempio estremo di questo tipo, si può citare la crisi (poi rientrata) del governo Goria nel novembre 1987, causata dal ritiro del Partito liberale dalla maggioranza di pentapartito, che pure non aveva bisogno del sostegno del Pli per sopravvivere. La ragione di questo approccio così rigoroso stava nella natura di quei governi, che nascevano da un patto fra partiti – un vero e proprio contratto – che si scioglieva quando uno dei contraenti si ritirava.
Dopo il 1994, tuttavia, le cose sono cambiate: così nel 1998 il governo Prodi I non si dimise dopo la scissione di Rifondazione comunista, ma cercò la conferma della fiducia grazie all’appoggio del Partito dei comunisti italiani (il tentativo fallì per un voto). E nel 2010, dopo l’uscita di Futuro e Libertà dal IV governo Berlusconi, l’esecutivo non si dimise, ma resistette (con successo) a una mozione di sfiducia presentata da 317 deputati, che venne poi respinta dalla Camera. Anche questa nuova prassi aveva una sua ragione: i governi post-1994 nascevano da un risultato elettorale che legittimava una coalizione formatasi prima del voto. Di conseguenza la legittimazione dei governi non dipendeva da un accordo partitico post-elettorale e poteva resistere alla diserzione di uno o più partiti a meno che non venisse a mancare la maggioranza numerica.
Il governo Letta si trova in una situazione paradossale: esso opera in un Parlamento eletto con una legge maggioritaria, ma non è il prodotto immediato del risultato elettorale. Alla sua base vi era un accordo fra tre partiti (reso necessario dall’assenza di maggioranza al Senato), ma anche l’indirizzo del presidente della Repubblica (che ha scelto – sostanzialmente e non solo formalmente – il presidente del Consiglio e la formula politica). Non deve dunque stupire che Fi ne abbia chiesto le dimissioni, né che tale richiesta sia stata indirizzata al capo dello Stato e non alle Camere (mediante una mozione di sfiducia), come la Costituzione sembrerebbe richiedere. E non stupisce neppure che il presidente Napolitano (garante di questo governo) abbia dato direttamente la risposta, tracciando la via che poi è stata precisata dal presidente del Consiglio: il governo si presenterà alle Camere per ottenere il rinnovo della fiducia dopo l’8 dicembre.
Stupisce invece che Forza Italia sia uscita dalla maggioranza, ma che i sottosegretari facenti capo a essa non si siano ancora dimessi (o almeno non tutti), a differenza di quanto fecero, sia pur provvisoriamente, i ministri del Pdl alla fine di settembre (e quelli finiani nel 2010). Non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se il Consiglio dei ministri revocasse tali sottosegretari, com’è accaduto in passato. Ma più in generale si ravvisa nell’attuale legislatura uno smarrimento del senso del voto fiduciario e del rapporto maggioranzaopposizione: così si è visto un deputato del Pd (Civati) non votare la fiducia al governo, senza che ciò portasse all’espulsione dal gruppo parlamentare (e anzi, quel deputato oggi è candidato alla segreteria del suo partito); e di recente due candidati alla segreteria del Pd e un viceministro di quello stesso partito hanno espresso una sorta di sfiducia verso un ministro (Annamaria Cancellieri) del governo che il Pd sostiene.Un passaggio parlamentare (non necessariamente una crisi) è dunque consigliabile dalla logica del governo parlamentare, anche per delimitare con chiarezza i ruoli di maggioranza e opposizione. Sono invece infondate le polemiche sui tempi: attendere l’elezione del nuovo segretario Pd è una scelta di semplice buon senso.