Certo, monsignor Cesare Mazzolari è stato un simbolo. Un protagonista, un padre della patria, un testimone. Ma soprattutto un sacerdote e un vescovo. Un uomo così carico di Vangelo da predicarlo senza frasi fatte o analisi forbite, puntando sulla forza dell’esempio. Nel silenzio come nella denuncia, di fronte ai grandi della terra come nel buio della più sperduta chiesetta di villaggio. La vita lo ha ricompensato con il dono più grande che possa toccare a un missionario: il privilegio di guardare i poveri negli occhi. Un regalo che capisce chi sa trovare la grandezza nel più piccolo dei piccoli, nel viso di un bambino strappato alla guerra, nel lebbroso che fatica a sentirsi uomo, nella madre senza medicine per curare il figlio.Sentirsi dire grazie è un "rischio" che il missionario non mette in conto. Perché chi lotta per l’esistenza non ha tempo di frugare nel sacchetto delle parole. Padre Mazzolari lo sapeva e l’aveva messo per iscritto in un libro intervista: «Qualche volta quello che faccio avrà successo, molte volte i risultati saranno a lunga scadenza, il riconoscimento avrà tempi ancora più lunghi e forse io nemmeno lo riceverò». La storia gli ha dato torto. Da sabato, il giorno della sua morte, ai funerali di ieri, la Cattedrale di Rumbek, dov’è stato sepolto, ha aperto le porte a un interminabile corteo di commozione e di preghiera. In fila uomini e donne arrivati da ogni angolo del Paese, cattolici soprattutto, ma anche cristiani di altre confessioni, e poi tanti musulmani e animisti. Nel loro omaggio, la grandezza di chi non era più un semplice missionario, ma un padre della patria, quel Sud Sudan per cui Mazzolari si è speso giorno dopo giorno. Senza guardare alle alchimie politiche ma puntando sui bisogni della gente, affrontando la sfida della povertà e dell’ignoranza con la forza e la luce del Vangelo. In quel corteo, fatto soprattutto di silenzio, c’era l’amore per uno "di famiglia", l’orgoglio di poter dire «io c’ero», la straordinaria ordinarietà di un uomo che pur essendo nato in Italia poteva parlare di Africa usando il "noi".L’aveva fatto anche il 9 luglio alla cerimonia per l’indipendenza del neonato Sud Sudan. «Non dovremmo dipendere da ciò che altri ci offriranno, ma piuttosto dal duro lavoro delle nostre mani – disse nell’occasione –, dei nostri cuori e delle nostre menti per provvedere alla nostra famiglia e al bene comune della nostra nazione». Un richiamo forte all’orgoglio e alla responsabilità di essere popolo, un appello al dovere della realtà, un monito contro quel fatalismo che troppe volte impedisce all’Africa di trasformare il sogno in vita vissuta, il bisogno in opportunità. Anche per il suo coraggio della verità, per la capacità di affrontare i problemi senza fare sconti a nessuno, la gente sud sudanese sente il bisogno di dire grazie a monsignor Mazzolari. Lo farà dedicandogli una piazza a Rumbek, di cui è stato vescovo per oltre vent’anni.Vogliamo pensare e sperare che diventi un punto di incontro per tanti giovani, cui è affidato il compito – scriveva Mazzolari pochi giorni prima di morire – di «imbastire e cucire il futuro». Per renderlo accogliente e colorato, quei ragazzi dovranno usare umanità e speranza. Lo stesso filo con cui un missionario diventato vescovo ha intessuto tutta la sua vita, senza pretendere niente per sé. Neppure un grazie.