Opinioni

Conseguenze dell'indebitamento. Quattro crisi da governare e scricchiolii strutturali

Mauro Magatti domenica 3 settembre 2023

Negli ultimi mesi, il forte e inaspettato rilancio del biennio post-Covid – quando l’Italia ha fatto registrare una crescita superiore a quella degli altri Paesi avanzati – è andato un po’ per volta scemando. Il ritorno alla normalità non ha solo fatto riemergere i vecchi problemi, ma rende distintamente riconoscibili alcuni preoccupanti scricchiolii strutturali.

Per capire il momento che stiamo attraversando occorre tornare agli anni Ottanta, decennio in cui si è formato il grosso del debito pubblico, passato tra il 1980 e il 1994 dal 57% al 126% del Pil. Da allora, la nostra situazione debitoria, combinandosi con la rigida disciplina di Maastricht, non è più migliorata. Un vero e proprio freno strutturale che, assorbendo una quantità enorme di risorse, è la vera causa della “non crescita” italiana negli ultimi tre decenni. Quest’anno (con il debito al 145% del Pil) il nostro Paese spenderà 75 miliardi per gli interessi (contro i 52 per l’istruzione e i 60 alle politiche sociali e alla famiglia).

L’indebitamento di lungo periodo lascia in eredità quattro crisi strutturali.

La prima, e più grave, è la crisi demografica: l’invecchiamento della popolazione (un risultato importante, ottenuto grazie ai progressi economici, sanitari ed educativi) e il crollo della natalità rendono l’Italia un Paese vecchio, dove cominciano a mancare le persone fisiche per mandare avanti le attività fondamentali. Col rischio di un avvitamento nella spirale di una decrescita infelice.

La seconda crisi ha che fare con l’aumento della disuguaglianza. Oltre ai dati impressionanti sulla povertà assoluta – l’Istat stima che ci siano poco meno di 6 milioni di indigenti veri, il 10% della popolazione – problemi gravi si registrano in due ambiti fondamentali della vita sociale: il lavoro, dove è vero che il numero totale di occupati è salito, ma i salari sono immobili da anni e il lavoro povero e precario imprigiona molti nel circuito dell’impoverimento; e la sanità: lo scardinamento di fatto del Sistema sanitario nazionale sta rendendo oggettivamente difficile l’accesso alle cure, soprattutto ai più svantaggiati.

La terza crisi è quella educativa. L’obbligo scolastico è stato una grande conquista (così come le 150 ore che permisero a decine di migliaia di lavoratori di imparare a leggere e scrivere); ma oggi l’Italia continua ad avere un numero inaccettabile di dropout (chi abbandona la scuola) e più in generale una popolazione giovanile che, rispetto agli altri Paesi avanzati, ha livelli formativi nettamente più bassi. Come sanno molti insegnanti, la scuola è spesso un campo di battaglia dove diventa difficile, qualche volta impossibile, lavorare bene.

La quarta crisi è la disgregazione del territorio, con la distanza crescente tra Nord e Sud e tra zone centrali e aree interne. Una disgregazione territoriale che si combina poi con l’illegalità che in alcune aree pretende di spadroneggiare.

Il Paese regge perché c’è una parte (non piccola, ma nemmeno maggioritaria) di cittadini che continua a dare il meglio di sé.

Ancora in questi ultimi anni, l’Italia ha fatto registrare un record nelle esportazioni, e molte piccole e medie imprese ci sono invidiate da tutti. Negli ospedali, nelle scuole, nelle università, nei servizi ci sono uomini e donne oneste che lavorano con gusto, passione, competenza. C’è poi un’altra parte di Paese, mediamente più avanti negli anni, che ha tirato i remi in barca e che si accontenta di vivere di diverse forme di rendita: immobiliare (si pensi al fenomeno delle case-vacanze), pubbliche (in diverse Regioni avere accesso a risorse pubbliche rimane la via maestra per vivere bene senza troppo affanno), economiche (con lo sfruttamento del lavoro in nero, immigrato, giovanile o di una qualche posizione ereditata). La logica di fondo di questo secondo gruppo, piuttosto ampio e trasversale, è estrarre valore senza reinvestire. Infine, c’è una terza parte del Paese che, di fronte alle evidenti difficoltà, si rifugia nell’odio. Sono tanti quelli che gridano, imprecano e, sempre più frequentemente, usano la violenza. Dove lo straniero e il diverso sono i bersagli più facili su cui scaricare la rabbia. Come da manuale.

Di fronte a queste sfide, il governo dà la sensazione di essere incerto sul percorso da intraprendere. Forse consapevole delle enormi difficoltà che si devono affrontare per risolvere i problemi veri, sembra non aver ancora deciso con quale parte di Paese vuole stare. Ma, al punto in cui siamo, è necessario che il governo dica con chiarezza come e con chi vuole provare ad affrontare le quattro crisi strutturali in atto. È questo l’unico modo per evitare che l’Italia imbocchi la via del suo definitivo declino.