Opinioni

Dalle carceri ai campi. Quegli «invisibili» a intermittenza

Diego Motta martedì 25 giugno 2024

Fino a quando faremo finta di non vedere? Drammi come quelli che riguardano detenuti e braccianti hanno tanti, troppi punti in comune e la cronaca di questi giorni ce lo ha ricordato. Mondi dimenticati tornano d’improvviso d’attualità, filtrano sentimenti d’indignazione, si invocano provvedimenti d’urgenza. La politica quasi sempre cavalca la notizia, non potendola cancellare, annuncia interventi roboanti e poi tutto torna in archivio.

La verità è che gli invisibili ci sono sempre stati, solo che a volte preferiamo non guardare. Sono chiusi in cella, si sentono soffocare e si tolgono la vita: 45 persone si sono suicidate dall’inizio dell’anno, 57 sono decedute per altre cause. Possibile che nessuno si chieda perché, quando è lo Stato a dover garantire la loro sicurezza e la loro salute? Poi ci sono decine di migliaia di persone che lavorano sotto la luce del sole, in condizioni disumane e con paghe da fame. Se la loro resistenza si fiacca e vengono meno, possono morire come è accaduto la settimana scorsa a Satnam Singh nelle terre dell’Agro Pontino. In modo barbaro, criminale. Nove anni fa era successo a Paola Clemente, bracciante morta di fatica in Puglia, per pochi spiccioli di euro. Le tragedie non hanno colore e non hanno nazionalità, sono semmai il risultato di emergenze sociali mai affrontate e su cui il peso di decenni di promesse si è fatto col tempo insostenibile.

Sappiamo bene dove tutto questo accade, ma sta a noi decidere se aprire gli occhi o tenerli chiusi, non solo metaforicamente. C’è una costante, implacabile quotidianità da considerare quando si raccontano fenomeni come il sovraffollamento carcerario e lo sfruttamento degli ultimi.

Perché quel che tiene insieme queste situazioni è proprio la volontà di mantenere queste vicende ai margini, anzi, di sospingerle silenziosamente verso terre di nessuno, verso le periferie dell’oblio mediatico. Meglio non parlarne, se non in casi eccezionali. Accade anche con i senza dimora, abbandonati ai bordi delle strade e delle stazioni, a richiedenti asilo fatti trasferire in fretta e furia dai centri prefettizi perché costano troppo o perché non c’è più spazio. Spesso finiscono nelle fabbriche dismesse, nei vecchi hangar aeroportuali, come abbiamo documentato. Lontano dagli occhi, appunto.

È certo all’attenzione di chi dovrebbe gestire questi fenomeni, che non spostano voti (anzi, probabilmente li fanno perdere) che vanno rivolti alcuni appunti per uscire da questa tragica inerzia. Le cose succedono perché non sono governate e trattare l’ordinario con politiche “una tantum” alla fine fa soltanto danni, quando invece basterebbe applicare buone leggi già esistenti (come la 199 sul caporalato) per dare un segnale concreto. Finora, invece, abbiamo assistito a due tipi di reazioni diverse: da un lato c’è sempre un’accelerazione a colpi di decreti, dall’altro si tende ad annunciare e a rinviare. In ogni caso, si assecondano istinti sbagliati. Si danno titoli in pasto a telegiornali che hanno fame di novità dal palazzo, senza indagare le cause profonde. Il senso di urgenza, in casi come questi, è diventato una regola di comunicazione politica, ma senza fatti la retorica sulle cose fatte o da fare rischia di trasformarsi in boomerang. Un esempio c’è già. Non è bastato chiamare “decreto Cutro” il giro di vite sui migranti per esorcizzare il naufragio sulle coste calabresi del febbraio 2023, il momento più difficile di questa legislatura nelle parole della presidente del Consiglio. Al contrario, ormai non c’è occasione in cui quel “titolo” non venga rinfacciato all’attuale esecutivo per l’inefficacia delle misure prese, quasi disonorasse le vittime di quell’odissea. Dovremmo farne tesoro e cercare di trovare risposte concrete che partano, come sempre, da ciò che rimanda l’umanità tradita e offesa di questi mondi dimenticati. Ci sono sempre più invisibili tra noi, ma è sbagliato pensare di poterli trattare sempre alla stregua di fantasmi.