Gli atti di fede di un presidente. Biden tra radici cattoliche e sfide laiche
Diventare presidente degli Stati Uniti d’America, a 77 anni, nel mezzo di una pandemia che continua a mietere migliaia di morti, con un’economia in difficoltà e un Paese in preda a forti scontri razziali richiede molto coraggio. Forse una certa dose di incoscienza. La storia dirà se Joe Biden riuscirà nell’impresa di guidare il suo Paese fuori dalla tempesta. Quel che è certo è che l’America ha deciso di affidarsi a un timoniere che, dal punto di vista umano, non poteva essere più diverso dal suo predecessore.
Uomo delle istituzioni, con una vita segnata da dolori devastanti, Biden trasmette un senso di calma. Un tratto che i critici considerano il suo vero punto debole, ritenendolo un atteggiamento poco virile nei confronti di una realtà scossa da fortissime tensioni. In realtà, le differenze di temperamento tra Biden e Trump nascondono questioni ben più profonde, che toccano direttamente l’intera vita sociale.
La prima riguarda il tema della laicità, cioè il rapporto tra politica e religione. Biden non ha mai nascosto di essere cattolico, anzi. In molte interviste, anche recenti, il neopresidente americano si è riferito alla fede come bussola di fondo della propria vita personale e dei propri orientamenti politici: «La mia fede mi insegna che noi dovremmo essere il Paese che non solo accetta la verità dei mutamenti climatici, ma che guida il mondo nel rispondere a essi» ('Religion news service').
E in un’altra intervista: «La mia fede mi implora di avere una gestione preferenziale per i poveri e come presidente farò di tutto per combattere la povertà e costruire un futuro che ci porti più vicino ai nostri ideali» ('The Christian Post'). Dichiarazioni che sembrano fare riferimento alle due ultime Encicliche di papa Francesco, Laudato si’ e Fratelli tutti. E tuttavia, questa ispirazione religiosa viene declinata da Biden secondo la tradizione della laicità americana, in cui la fede in Dio – espressamente citata nel noto motto nazionale «in God we trust» – costituisce un riferimento comune da tradurre in un linguaggio politico adatto a tutti cittadini, indipendentemente dal proprio credo religioso. Esattamente l’opposto dell’uso senza mediazioni di riferimenti e simboli religiosi che ha caratterizzato la presidenza Trump (e non solo). Una interpretazione della laicità che non risolve di per sé il problema del delicato rapporto tra sfera religiosa e sfera politica – dato che c’è sempre il rischio di sacrificare aspetti importanti, rispetto a questioni come l’aborto, per fare un esempio cruciale, per ragioni di opportunità politica. Ma che è consapevole dei rischi che si corrono tutte le volte in cui la religione si fa prendere dall’idea di usare la politica (e i calcoli tattici di taluni leader politici) per affermarsi nella società.
Strada che la tradizione cristiana ha imparato a considerare sterile e pericolosa. La seconda questione riguarda il modo di affrontare le tante tensioni che attraversano la vita sociale di oggi. Tanto nella vita privata quanto nella sfera pubblica, Biden – all’opposto di Trump, muscolare e provocatorio - ha dato prova di essere uomo di riconciliazione. Allergico ai toni forti, il nuovo presidente ha una spiccata attitudine per la mediazione e la ricerca di una soluzione comune. Certo, ciò lo espone al rischio di accettare alla fine qualunque compromesso.
Ma la speranza è, invece, che il nuovo presidente sia capace di operare per permettere di ritrovare quel senso di un comune destino che è oggi così difficile da riconoscere. All’interno, perché la lacerazione elettorale dice di una società americana a pezzi, incapace di ritrovarsi in una visione condivisa del proprio ruolo nel mondo, condizione essenziale per ricomporre le diversità razziali, religiose, sociali, territoriali che la compongono. E a livello internazionale, perché mai come in questo momento il mondo appare attraversato da potenti venti di guerra. Gli storici dicono che le grandi pandemie segnano anche la fine di grandi cicli politici.
E questo è vero anche per gli Stati Uniti di oggi. Superata la crisi sanitaria, si scoprirà che il rapporto tra Occidente e Oriente sarà già cambiato. Semplicemente perché la Cina (e l’Oriente in generale) ha gestito meglio l’emergenza Covid. Come evitare, allora, lo scontro di civiltà, lavorando per la ricerca paziente di un dialogo tra mondi che possono arrivare a scontrarsi o che invece possono aiutarsi a superare i propri limiti nel confronto reciproco? Per l’Occidente il tema sarà quello di andare al di là dell’individualismo radicale e di recuperare un’idea responsabile di libertà, al di là dell’ideologia di un’economia regolata unicamente dalla logica del mercato e del profitto (o, comunque, del successo solo per sé).
Per l’Oriente si tratterà di trovare un equilibrio tra le spinte autocratiche e centralistiche e il riconoscimento della libertà personale (a partire da quella religiosa), elemento fondamentale di ogni ordine sociale giusto. Una sfida grandissima che va ben oltre il tempo breve della presidenza di Biden. Ma che l’anziano neopresidente – che entra alla Casa Bianca dopo una lunga vita plasmata dalla fede e dal dolore – ci auguriamo possa almeno cominciare ad affrontare.