Carcere: via chiara, inerzia colpevole. Gli applausi non bastano
Rileggendo il discorso di insediamento del presidente Mattarella con ancora nell’aria l’eco dei ripetuti applausi, vien subito fatto di pensare che, certo, l’eccezionale standing ovation si spiega con il sincero sollievo per una soluzione che garantisce stabilità al Paese in un periodo in cui ne ha vitale bisogno; che, certo, si voleva anche esprimere gratitudine per lo spirito di servizio con cui il Capo dello Stato non si è sottratto al SOS che veniva dai rappresentanti del suo popolo. Ripercorrendo, però, i passaggi di quel denso e alto discorso sul dover essere di un Paese civile, affiora un sospetto: non è che il battimano serviva a coprire le voci interiori, che, almeno nei migliori tra i plaudenti, sussurravano se non un rimorso, un rammarico per tutto ciò che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto; per tutto ciò che non si sarebbe dovuto fare e invece si è fatto?
Prendiamo un passaggio di quel memento presidenziale: «Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza». Ad applaudire c’erano anche le stesse persone fisiche e gli stessi leader politici, che al tramonto della precedente legislatura, dopo aver promosso la più imponente mobilitazione culturale di riflessione e di proposta sul tema - gli Stati generali dell’esecuzione penale - hanno ritenuto, per miopi calcoli elettoralistici, poco redditizio portare a termine il progetto di riforma penitenziaria che ne era scaturito.
Ad applaudire c’erano coloro che, all’alba della presente legislatura, hanno con accuratezza chirurgica asportato dal testo di quella riforma tutte le misure di modulazione della risposta penale volte ad accompagnare gli eventuali progressi individuali in vista di un graduale reinserimento sociale, se meritato. Ad applaudire, anche da casa per Covid, c’erano quanti andavano raccomandando di «gettare via le chiavi» e lasciare che i condannati «marcissero in galera». Ad applaudire c’erano i tanti don Abbondio che hanno taciuto per non contraddire il sentire comune di una popolazione che, ormai cronicamente affetta dalla grave pandemia dell’insicurezza, pensa che tanto più si punisce con cieco rigore, tanto più ci si mette al riparo dal pericolo criminale.
Le parole presidenziali, in due righe, hanno riaffermato provocatoriamente da che parte sta la civiltà, la Costituzione e il buon senso. Meglio coprire con un imbarazzato e imbarazzante applauso l’inaccettabile distanza tra quel dover essere e la voce di una cattiva coscienza politica.
La civiltà: 'Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate'. Sono passati appena otto anni da quando la Corte europea dei diritti dell’uomo, a causa dello strutturale sovraffollamento penitenziario, ha condannato l’Italia per violazione dell’art.3 Cedu, cioè per aver inflitto ai propri detenuti un «trattamento inumano o degradante».
Senza le scarcerazioni e le ridotte incarcerazioni per il Covid probabilmente saremmo già tornati nell’umiliante condizione di farci ancora additare come uno Stato che illegittimamente umilia la dignità degli uomini a cui toglie legittimamente la libertà.
La Costituzione: la pena detentiva 'assicuri il reinserimento sociale del detenuto'. È significativo che il Presidente abbia avvertito la necessità di rammentarci che la pena detentiva, come ogni altra pena, deve garantire le condizioni per il recupero sociale del condannato (art. 27 comma 3 Cost.). Ciò significa che la sua esecuzione non può restare indifferente rispetto al percorso compiuto dalla persona che è stata punita.
Lo Stato ha il dovere costituzionale di promuovere, accompagnare e valorizzare la difficile risalita dal baratro del delitto. Il buon senso: assicurare il reinserimento sociale costituisce «la migliore garanzia di sicurezza». La segregazione senza speranza, infatti, mette a grave rischio la tranquillità sociale. I detenuti, prima o poi, tornano in libertà e, molto spesso, a delinquere.
Questa inclinazione a ri-delinquere subisce sempre una drastica riduzione, come inequivoche esperienze nazionali e straniere dimostrano e come il Presidente si è sentito costretto a ricordare, quando il condannato ha scontato la pena in un regime carcerario che ne abbia rispettato la dignità, lo abbia responsabilizzato e gli abbia offerto la possibilità di guadagnarsi – anche adoperandosi in favore della collettività e delle vittime dei reati – un graduale, controllato reinserimento sociale.
Anche papa Francesco è tornato più volte accoratamente sulla intollerabile disumanità di un carcere sovraffollato («è un muro, non è umano!») e ha reiteratamente ammonito che «qualsiasi condanna per un delitto commesso deve avere una speranza, una finestra», denunciando senza mezzi termini come «sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società» si sia «affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative». Un nuovo, grande applauso anche per il Papa, e non pensiamoci più.
Giurista, Università di Roma La Sapienza già coordinatore del Comitato tecnico degli Stati Generali sull’esecuzione penale