C’è un forte contrasto tra il profondo senso di giustizia che tutti, anche i malvagi, ci ritroviamo dentro, e il mondo che ci appare come uno spettacolo di generalizzata ingiustizia. «L’uomo nasce libero, ed è ovunque in catene» (J.J. Rousseau). Per molte ingiustizie i tribunali e gli avvocati non bastano, per alcune non servono, perché gli aspetti legali, commutativi e compensabili coprono solo una piccola parte del territorio della giustizia, la cui estensione coincide con quella dell’intera vita in comune. Un modo sbagliato di rispondere alla domanda di giustizia è la tendenza, oggi in veloce aumento, a 'giuridicizzare' l’intera vita sociale, codificando possibilmente ogni relazione interpersonale, trasformando tutti i rapporti umani in contratti. Una tendenza-tentazione che, invece di aumentare la giustizia, sta bloccando scuole, condomini, ospedali in trappole di sfiducia reciproca, poiché molti rapporti umani si snaturano quando vengono contrattualizzati.
La grande lezione sulla giustizia dell’umanesimo europeo era invece diversa. Innanzitutto ha chiamato anche la giustizia virtù cardinale, dicendoci così che essa è prima di tutto il frutto di un esercizio continuo della persona. Prima di essere invocata come principio, la giustizia va praticata, vissuta, cercata, coltivata, come le altri grandi virtù dell’esistenza. La giustizia della città è generata dalla giustizia dei cittadini, come aveva simbolicamente espresso la cultura greca facendo nascere Dike, la dea della giustizia della polis, dalla madre Themis, la dea di quella Giustizia che viene prima di ogni sistema giuridico storico e concreto, e che rende giusto chi la segue. Per questo Themis può anche entrare in conflitto con Dike, come nella grande tragedia di Antigone la quale, in nome di una giustizia più grande, seppellisce contro la giustizia della polis il fratello morto Polinice. Anche gli scribi e i farisei avevano la loro giustizia, e in base a quella hanno condannato il Cristo. Nessuna invocazione della giustizia è giusta se proviene da cittadini ingiusti che usano la giustizia-Dike contro la Giustizia-Themis, magari per opprimere i poveri e i giusti, e sempre a loro vantaggio. Se infatti mancano cittadini amanti e praticanti della virtù della giustizia, le leggi che essi produrranno non potranno che essere ingiuste, e tanto più ingiuste quanto più democratica è la forma di governo – è infatti la necessità di cittadini virtuosi la principale fragilità delle democrazie, come ben sapevano Montesquieu o Filangieri. Al tempo stesso, le leggi giuste rafforzano, premiandole, le virtù civili dei cittadini.
Per questa ragione le declinazioni della virtù della giustizia sono aperte e volutamente vaghe: ci invitano a riconoscere e a dare a 'ciascuno il proprio' senza però dirci come misurare quel proprio, né chi debba misurarlo. E anche se la giustizia-Dike è chiamata a dare contenuto e limite al 'proprio' di ciascuno, è ancor più vero che l’indeterminatezza della virtù della giustizia è espressione del suo essere un rapporto tra persone. Riconosciamo e diamo all’altro il giusto che gli spetta, se e quando tra di noi esiste una comune appartenenza, perché, in un senso vero, l’altro mi interessa e mi riguarda, è terza persona solo perché, a un livello più profondo, è seconda (un 'tu'). E mentre la giustizia-Dike può accontentarsi di dare a ciascuno il suo, la virtù della giustizia va oltre il calcolo del proprio. Il cristianesimo ci ha detto che la differenza tra la sua giustizia e la giustizia degli scribi e dei farisei si chiama agape, che non inizia quando finisce la giustizia, ma ne è compimento e forma.
L’economia non ha mai preso sul serio il tema della giustizia, se si eccettuano l’economista e filosofo indiano Amartya Sen, e pochi altri. Per l’ideologia-religione capitalistica la giustizia fa parte dei vincoli da rispettare, non appartiene agli obiettivi da raggiungere. Giustizia è sinonimo, nella migliore delle ipotesi, di rispetto forzoso delle leggi sul lavoro, sull’ambiente o sulla sicurezza, o di pagare le tasse. Tutti vincoli vissuti come limite all’unico vero obiettivo dell’impresa capitalistica: la massimizzazione del profitto o, più propriamente e più gravemente, della rendita. Ma in principio non era così. Il 'giusto prezzo' è stato uno dei grandi temi dell’economia medioevale, e Antonio Genovesi parallelamente al suo trattato di economia (
Lezioni di economia civile), aveva scritto nel 1766 la
Diceosina , ossia un trattato sulla giustizia, che era l’anima della sua intera produzione economica ed etica. La giustizia che conosce – quando la conosce – il nostro capitalismo è simile a quella degli scribi e dei farisei, quella dei vincoli e del rispetto formale e cultuale delle leggi. La domanda sulla giustizia riguarda e giudica l’intero sistema capitalistico attuale, una domanda che però da troppo tempo abbiamo accantonato, soprattutto per una crisi di pensiero critico.
Non si tratta semplicemente di denunciare (giustamente) come ingiusti singoli fenomeni del capitalismo (dai vergognosi stipendi e pensioni di molti alti dirigenti pubblici e privati ai paradisi fiscali, dalle speculazioni che non creano ma distruggono il lavoro alle multinazionali delle scommesse che affamano i poveri con la connivenza delle istituzioni…), bensì di prendere atto che esiste una inimicizia molto profonda e radicale tra il nostro capitalismo-finanziario e la virtù cardinale della giustizia. Ciò non significa negare che ci sono tante persone che praticano ogni giorno la virtù della giustizia nella vita economica, ma soltanto riconoscere che un sistema fondato sulla ricerca del massimo tornaconto dei proprietari delle grandi banche, delle assicurazioni e delle imprese multinazionali, è in conflitto, come sistema etico, con le esigenze della virtù della giustizia.
La giustizia di questo capitalismo non va confrontata, per giudicarla, con quella ancora minore del feudalesimo, ma con quella che potevamo realizzare se non avessimo tradito la vocazione sociale e civile dell’Europa, per seguire le sirene del consumismo e della finanza speculativa. E questo capitalismo che continua a produrre rendite e privilegi per pochissimi, e disoccupazione e marginalità per tantissimi, che scrive leggi che rafforzano quei privilegi e disallineano sempre più i punti di partenza a svantaggio dei deboli e dei poveri, non può avere la giustizia dalla sua parte – deve accontentarsi dell’efficienza, quando ci riesce. Se volessimo superare questo modello di sviluppo e imboccare decisamente la via della giustizia, dovremmo avere un coraggio civile e una forza di pensiero pari almeno a quelli che generarono il movimento cooperativo europeo, che all’alba del capitalismo aveva tentato un’altra via al mercato e all’impresa, e per questo metteva in discussione i diritti di proprietà, la distribuzione del reddito (un tema ormai uscito dai libri di economia), il potere, l’uguaglianza delle opportunità tra i soggetti economici, senza negare né la libertà né il mercato.
La storia del Novecento ha invece prodotto un capitalismo, che è essenzialmente l’immagine in controluce dei nostri vizi e delle nostre, poche, virtù – e per questo può essere sempre cambiato e fatto evolvere in altro, se lo vogliamo. Lo spettacolo dell’ingiustizia e dell’iniquità continua a dominare la scena di questo mondo. Tanti sono ormai assuefatti ai privilegi e i comfort ingiusti dell’attuale capitalismo, e lo alimentano con le loro scelte quotidiane. Altri, ancora troppo pochi, continuano a pensare e a dire che molte grandi ingiustizie manifeste possono essere eliminate dalla nostra società, e agiscono di conseguenza, come possono. E così continuano, testardamente, ad «avere fame e sete della giustizia» e, ogni tanto, a sentirsi chiamare «beati».