Se fosse un
reality di cattivo gusto potrebbe intitolarsi "Il grande fardello". Non è un
reality, ahinoi, bensì la cruda realtà della giustizia civile italiana. Cruda e costosa. Pesa «come il debito pubblico» sull’affannoso petto della nostra amata Italia, novella Ermengarda che anziché morbide trecce esibisce una capigliatura un po’ arruffata per i tanti guai, per gli abusi subiti da predoni senza scrupoli e per i troppi debiti accumulati. Resiste però la speranza di curarla e, chissà, di guarirla. Nulla di inedito nella diagnosi, per carità. Ma bene ha fatto il vicesegretario generale dell’Ocse, l’italiano Pier Carlo Padoan, a ricordare che «il fardello», appunto, dell’arretrato giudiziario civile – circa 4 milioni di cause pendenti tra primo grado e appello – può equivalere in termini economici all’1% del pil nazionale. Sì, perché un processo civile efficiente, rapido, affidabile, è una garanzia per gli imprenditori nostrani e internazionali, che sarebbero indotti a investire nel nostro Paese certi di poter dirimere in tempi brevi eventuali controversie. Oggi non è così. Anzi, nella classifica sul tempo necessario a recuperare un credito, stilata dalla Banca mondiale, siamo intorno al 158° posto su 183, dietro Paesi con economie molto meno sviluppate: 1.210 giorni, più di tre anni. E il tempo, mai come in questo caso, è denaro.Un processo civile di primo grado, ha ricordato Padoan, dura in media 564 giorni e ci vogliono 8 anni per un verdetto definitivo. In realtà esistono casi limite che vanno perfino oltre: vite intere, o quasi, monopolizzate da un contenzioso per la spartizione di un’eredità o per una lite tra vicini. Fin qui il morbo, noto a livello planetario, come dimostra l’allarme lanciato ieri dall’Ocse. Ma veniamo alla cura. Ripresa economica e funzionamento della giustizia civile non possono essere separati. Sarebbe come fare il pieno, gonfiare le gomme, girare la chiave, ingranare la prima e pretendere di partire a razzo con un’auto che ha il motore ingolfato. Non si va lontano, viaggiando a singhiozzo. Il governo Letta ha dato prova di esserne consapevole, inserendo tra le 80 misure contenute nel "Decreto del fare" alcuni provvedimenti mirati proprio a snellire l’amministrazione della giustizia civile. Tra questi, la concentrazione delle cause riguardanti gli investitori stranieri nei soli Tribunali di Milano, Roma e Napoli (per una maggiore omogeneità nelle decisioni e l’abbattimento dei costi), nonché la reintroduzione della conciliazione obbligatoria, già resa operativa dall’ultimo governo Berlusconi ma "cancellata" dalla Corte costituzionale per eccesso di delega. L’obiettivo dichiarato dall’esecutivo è l’eliminazione di un milione e 200mila fascicoli nel giro di 5 anni. Funzionerà? La sfida è difficile e ricca d’incognite.Nella manciata di mesi in cui è già stato in vigore, per esempio, l’obbligo di tentare una conciliazione prima di finire in tribunale non ha dato i risultati sperati. Probabilmente è una questione di cultura: gli italiani, popolo tra i più litigiosi al mondo, tendono a non fidarsi del mediatore e pretendono la decisione di un giudice. Sarà importante far capire loro se e quanto "conciliare" può essere conveniente, in termini di tempo e di portafogli. Quanto poi ai giudici, si punta molto sull’applicazione a tribunali e corti d’appello di ex-magistrati, notai e avvocati, oltre che di neo-laureati tirocinanti (questi ultimi gratis) per lo smaltimento delle pratiche. Ma in proposito va ricordato che, già oggi, oltre 3mila magistrati onorari di tribunale (tra civile e penale) si occupano da precari di una larga fetta dei processi monocratici: nel civile decidono sul 100% delle esecuzioni mobiliari e, soprattutto nelle sedi disagiate, su gran parte delle altre materie. Senza di loro il «fardello» denunciato dall’Ocse avrebbe già schiacciato la sua vittima. Eppure "guadagnano" 73 euro netti al giorno solo quando lavorano, non hanno diritto a ferie, indennità di malattia e maternità, pensione. È uno scandalo nello scandalo della giustizia italiana, che non andrebbe esteso ma finalmente sanato.