Giustizia e politica cambiare si deve. Il «Watergate» di casa nostra e altre storture
In un’Italia che, a volte, pare assuefarsi troppo facilmente a scandali e disfunzioni varie, senza più provocare quelle indignazioni collettive che sarebbero necessarie, i nuovi e sorprendenti dettagli emersi in quel gran ginepraio che è l’inchiesta Consip riaprono la ferita sempre aperta dei delicati rapporti fra magistratura e politica e ci consegnano soprattutto due riflessioni. Innanzitutto, se sarà confermato il senso delle dichiarazioni rese al Csm dal procuratore di Modena, Lucia Musti, colpisce che quello che va sempre più delineandosi come una sorta di 'Watergate all’italiana', con spezzoni di apparati dello Stato che – anziché preoccuparsi esclusivamente di accertare la verità dei fatti – avrebbero deliberatamente tramato per colpire l’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non susciti questo generale moto d’indignazione, a partire dalla classe politica.
Al di là della presa di posizione di alcuni esponenti di punta del Pd, il partito di Renzi, e di pochi altri, tutto pare scivolare nella melassa di interessate indifferenze. Nello stesso tempo, però, con questa nuova puntata si dimostra che – per fortuna – all’interno del nostro sistema istituzionale esistono comunque quegli anticorpi capaci di scardinare l’uso strumentale che taluni fanno, per meri motivi di convenienza politica, di vicende alimentate più da fughe di notizie che da elementi fattuali.
È fondamentale che questi anticorpi si attivino e che funzionino. In questo caso è successo con tempi anche abbastanza celeri, mentre due altre vicende degli ultimi giorni – le assoluzioni dell’ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, le cui dimissioni furono una concausa nel 2008 della caduta di un governo, quello Prodi, e dell’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, a suo tempo costretto persino agli arresti (domiciliari) – li hanno visti scattare con un ritardo, rispettivamente di quasi 10 e di 3 anni, vergognoso e inconcepibile per una democrazia che voglia esser degna di questo nome. Sono troppe le carriere politiche segnate, invano, dall’azione di alcuni pm. Non si tratta, ovviamente, di imporre alcun 'bavaglio' alle indagini degli inquirenti, che sono e restano cardine insostituibile di quel 'patto' fra le istituzioni alla base di una comunità democratica.
Esigere, però, risposte rapide (nei limiti del possibile) quando si toccano gangli così vitali di una nazione è legittimo. E altrettanto legittimo, pur facendo salva la buona fede di larga parte dei nostri giudici, è chiedersi se esistano davvero 'pezzi' della magistratura (e persino di altri organi dello Stato) che alimentano il fumus persecutionis per condizionare l’attività politica. Dare risposte rapide è un dovere che dovrebbe avvertire in primo luogo la magistratura stessa, che invece in tanti suoi portavoce è ancora restia ad ammetterlo.
È anche per questo che 'Avvenire' si è caratterizzato in questi anni come giornale indisponibile ad alimentare il clamore attorno a indagini basate su quello che già abbiamo più volte denunciato come un imbarbarimento dello Stato di diritto. Vien da chiedersi, a esempio, in quale altro Stato sarebbe mai possibile che addirittura il comandante generale dei Carabinieri, il generale Tullio Del Sette, stimato dentro e fuori dell’Arma per il rigore del servizio reso in lunghi anni, sia indagato da 9 mesi (insieme al ministro Luca Lotti) per una presunta 'fuga di notizie', sempre in relazione alla vicenda Consip, senza che si avverta l’esigenza di fare rapida e definitiva chiarezza. È più di un decennio, ormai, che si invoca una riforma della giustizia, ora per un attacco al centrodestra, ora per uno al centrosinistra o ai capi del terzopolo (vero o tentato) di turno. Il tema alimenta sempre divisioni e dibattiti.
Mai quelle risposte che tutti, al di là dei complotti evocati, dovrebbero dare ai cittadini per rafforzare quegli anticorpi che pur ci sono e dissipare così il senso di sconcerto che queste vicende accrescono. Insomma, se il Watergate più famoso, quello che negli Usa chiuse la carriera politica a Richard Nixon, è passato alla storia come un capitolo-chiave di trasparenza e di rispetto delle regole, senza sconti a nessuno, non vorremmo che quello 'all’italiana' rimanesse invece consegnato alla cronaca solo come un ennesimo «pasticciaccio brutto». Emblematico di quel degrado nei rapporti fra poteri dello Stato (e anche di quella sciagurata alleanza fra giornalisti e ambienti giudiziari) in cui rischia di scivolare non solo la vita istituzionale ma anche la vita civile del nostro Paese.