«Dio è misericordia», «Dio amore è padre, è madre». «Madre è anche la Chiesa, se è continuatrice di Cristo. Cristo è buono: anche la Chiesa dev’esser buona, dev’esser madre verso di tutti. Nessuno escluso»; «siamo tutti poveri peccatori… ma nessun peccato è troppo grande, nessuno più della misericordia sconfinata del Signore». Sono
leitmotiv attualissimi dei quali è costellato il magistero di Papa Luciani, che in calce, nella sua agenda personale del pontificato, siglava così l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità». Albino Luciani aveva infatti assimilato già nella sua formazione sacerdotale quella visione, cara ai Padri del primo millennio, della Chiesa come
mysterium lunae: una Chiesa cioè che non brilla di luce propria, ma di luce riflessa; una Chiesa che non è proprietà degli uomini di Chiesa, ma
Christi lumini. Immagine della natura ecclesiale e dell’agire che le conviene che aveva irrigato diffusamente i documenti del Concilio e che divenne decisiva e feconda nell’iter pastorale di Luciani. E facendosi così apostolo del Concilio, che è stato un «segno della misericordia del Signore sopra la sua Chiesa», egli lo aveva incarnato soprattutto nel concepire la prossimità della Chiesa al popolo di Dio, nell’essere
propter homines. Prossimità che egli mostrò durante il suo breve, ma intenso pontificato, evidenziandosi particolarmente nel registro linguistico adottato per le allocuzioni e le catechesi, nella ricerca della semplicità nelle parole, affinché il messaggio della salvezza potesse giungere a tutti. Secondo quindi la deliberata scelta teologica di un linguaggio conversevole e accessibile di quel
sermo humilis canonizzato da sant’Agostino, che è comprensivo del mondo e degli uomini, che è con essi dialogante e da essi è comprensibile, perché
sermo humilis è anche espressione della
caritas e lieta novella nell’accezione agostiniana. Le quattro udienze generali sull’umiltà, la fede, la speranza e la carità che tenne in Vaticano durante il pontificato, restano un esempio preclaro di quanto fosse efficace l’oralità lucianea alla luce del Vangelo, nel solco del Concilio Vaticano II, coniugando
nova et vetera in felice e geniale sintesi. Prossimità, umiltà, semplicità e insistenza sulla misericordia e sulla tenerezza di Dio, sono i tratti salienti di un magistero conciliare che quarant’anni fa suscitarono attrattiva nel popolo di Dio. E sono gli stessi tratti che lo rendono attuale oggi legandolo in filo diretto di continuità con l’attuale Successore di Pietro. Il Servo di Dio Giovanni Paolo I è stato anzitutto testimone dell’amore misericordioso di Dio: è una costante della sua vita conforme alla sua predicazione. Il continuo riferimento alla natura del cuore di Dio che è amore, amore che ci precede, trova accenti peculiari e riscontro speculare in consonanze profonde con la predicazione di papa Francesco. Bergoglio non ha conosciuto Luciani, ma dimostrò di essere stato attento lettore dei suoi scritti elargendo suggerimenti quando preparavo la mia tesi di dottorato sulla silloge di lettere del papa veneto e come anche documenta il libro di prossima uscita
Il nome di Dio è misericordia. ella
Historia salutis, trascrizione di un corso di esercizi spirituali dettato ai sacerdoti nel 1965, pubblicato postumo, l’allora vescovo di Vittorio Veneto, con efficacia del tutto simile a quella dell’attuale Pontefice, espresse questo aspetto centrale del messaggio cristiano: «La misericordia di Dio è la base. È buono il Signore. Quale sia la bontà del Signore lo dice il Vangelo, dove il Signore si lascia chiamare amico dei pubblicani. Leggete san Luca. E in quale grado sia amico, lo dice lui stesso esponendo qual è la sua logica, il suo sistema di amicizia. Dice: Io sono fatto così, che se ho cento anime e una sola va per le strade storte, lascio le novantanove al sicuro, corro dietro solo a quella e non ho pace finché non la ritrovo e la porto a casa e facciamo una grande festa. In cielo si fa più sagra per un solo peccatore che ha fatto penitenza, che non per novantanove giusti che se ne stanno lì tutti quieti. Questo è il mio sistema». «Così – afferma ancora Luciani – sono stati cercati da lui, e trovati, e salvati, la samaritana, Maddalena, Zaccheo e il buon ladrone. Era talmente buono con la povera gente, con i peccatori, che questi si sentivano sollevati, gli erano sempre attorno, pendevano dalle sue labbra. Tra le critiche e i rimproveri dei farisei, dei dottori della legge che una volta hanno detto ai suoi discepoli: 'Questo è troppo'. Gesù ha sentito e ha risposto: Non è troppo. Volete farmi un piacere? Cercate nella Scrittura e trovate quelle parole:
misericordiam volo et non sacrificium, e spiegatemele. Non è così che devo fare? Sono un medico: devo andare in cerca di chi, dei sani? No, dei malati. È venuto il Figlio dell’uomo a cercare e a salvare ciò che era perduto. È il mio mestiere, la mia professione, non ho altri mestieri, io». Sull’esempio di san Leopoldo Mandic dal quale era stato confessato e del 'confessore di Roma' il gesuita padre Felice Cappello, suo parente e dirimpettaio di confessionale ad Agordo, egli più volte richiamava ai fedeli: «Nessun peccato è troppo grande: una miseria finita, per quanto enorme, potrà sempre essere coperta da una misericordia infinita. E non è mai troppo tardi… E non deve spaventare un eventuale passato burrascoso. Le burrasche, che furono male nel passato, diventano bene nel presente se spingono a rimediare, a cambiare; diventano gioiello, se donate a Dio per procurargli la consolazione di perdonarle». E se nella prima omelia tenuta a Venezia, il Servo di Dio aveva detto: «Dio è madre e tale madre, nei nostri confronti, che mai, a nessun patto, dimenticherà il frutto del proprio seno (cf. Is 49,15)», il motivo della viscerale tenerezza di Dio tornò nella celebre espressione pronunciata all’Angelus domenicale del 10 settembre: «Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre»; esprimendo così il paterno amore materno di Dio, che è stato orizzonte della sua riflessione nel suo trentennale insegnamento della teologia dogmatica. Nell’ultima udienza sulla carità Luciani ha ripreso e condensato tutto il suo magistero. Sull’amore di Dio e sull’amore del prossimo. «Qui, come Gesù – spiega – vengono congiunti i due amori: amor di Dio, amor del prossimo. I francesi dicono:
Ceux-ci sont des freres jumeaux, sono come gemelli questi amori, vanno insieme. Dio ha voluto così. Alla fine saremo giudicati su questi. Gesù ha detto quali sono le domande che ci farà: Avevo fame nella persona dei miei fratelli più piccoli, mi ha dai dato da mangiare? Ero ammalato, prigioniero sei venuto a visitarmi? Queste sono le domande. E qui dovremo dare le risposte». Parla delle due liste di sette opere di misericordia temporale e sette spirituale che la Chiesa ha ripreso dalla Bibbia. «Non sono complete, bisognerebbe aggiornale – commenta Luciani –. Oggi non si tratta più solo di questo o quell’individuo, sono interi popoli che hanno fame» e cita la
Populorum Progressio di Paolo VI chiamando a rispondere a questo «grido d’angoscia, con amore al proprio fratello». «Sono parole gravi» dice a voce senza essere riportato nel testo ufficiale «alla luce di queste parole non solo le nazioni, ma anche tutti noi, specialmente noi di Chiesa dobbiamo chiederci: Abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù che ha detto: 'Ama il prossimo tuo come te stesso?'». L’amore del prossimo e il perdono sono anche al centro dell’ultimo
Angelus il 24 settembre, che prende spunto da episodi di violenza. «La regola d’oro» che è stata ripresa da Bergoglio anche al Congresso degli Stati Uniti, è qui espressa in tutta la sua valenza attuale da Luciani: «La regola d’oro di Cristo è stata: non fare agli altri quello che non vuoi fatto a te. Fare agli altri quello che vuoi fatto a te. 'Impara da me che sono mite e umile di cuore'. E lui ha dato l’esempio. Messo in croce, non solo ha perdonato i suoi crocefissori, ma li ha scusati. Ha detto: 'Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno'. Questo è cristianesimo, questi sarebbero sentimenti che messi in pratica aiuterebbero tanto la società». Il riferimento alle monache martiri di Compiègnie chiude il suo ultimo
Angelus: «L’amore sarà sempre vittorioso, 'l’amore può tutto'. Ecco la parola giusta, non la violenza può tutto, ma l’amore può tutto». Lo sottolinea nei suoi appunti. «Domandiamo al signore la grazia che una nuova ondata di amore verso il prossimo pervada questo povero mondo». Le pagine autografe della sua agenda si fermano qui: «Che io vi ami sempre più». Sono le ultime sue parole.