Lavoro. La buona notizia del calo dei Neet: giovani in cerca di senso e guide
Giovani al lavoro
Quando si parla di occupazione giovanile il rischio di ripetere vuoti slogan è sempre molto alto. I giovani che non lavorano. I giovani che non vogliono lavorare. I giovani tra precariato strutturale e sfruttamento. I giovani che non sono più quelli di una volta, potremmo aggiungere. In questo quadro anche i segnali più incoraggianti sembrano rimanere soffocati da una narrazione ormai dominante e difficile da scalfire. Uno di questi segnali l’ha confermato Istat negli ultimi dati trimestrali sul mercato del lavoro e riguarda i Neet, acronimo tanto famoso quando non compreso per identificare i giovani che non studiano e non lavorano. Nei dibattiti televisivi e nella convegnistica aleggia sempre una cifra, 3 milioni, che quantificherebbe i giovani italiani intrappolati in questo limbo collocato tra percorsi formativi più o meno precocemente interrotti e un ingresso nel mondo del lavoro che tarda ad arrivare.
Eppure l’Istat ci dice che, anche prendendo la fascia d’età più ampia, quella tra i 15 e i 34 anni, il numero dei Neet al termine del 2023 era di 2,1 milioni, in calo di quasi un milione rispetto ai picchi del 2018 e poi, complice la pandemia, del 2020. Un dato che di per sé dovrebbe essere una notizia, prima ancora di analizzarla o commentarla. Una notizia ancora più dirompente, rispetto ai tanti chiari e scuri del nostro mercato del lavoro, una volta verificato come il calo non sia tanto un derivato del crollo demografico delle persone appartenenti a questa fascia d’età. L’incidenza dei Neet tra i 15 e i 34 anni è infatti diminuita dal 24,6 al 18% tra il 2018 e il 2023. E il calo riguarda tutte le sottocategorie che la compongono: diminuiscono di quasi 400 mila unità i disoccupati e di oltre 400mila unità gli inattivi, soprattutto le cosiddette forze lavoro potenziali. Un segnale importante e per certi versi sorprendente, in assenza di precise politiche mirate a colpire questo fenomeno. Anche se, sullo sfondo, resta comunque il fatto che questo dato, seppur in netto calo, inchioda comunque l’Italia al terzo posto in Europa per percentuale di Neet, dietro soltanto a Grecia e Romania. Un esercito di ben 2 milioni di giovani in queste condizioni rimane un numero enorme soprattutto considerando che solo 700 mila di questi sono disoccupati, cioè persone che attivamente cercano lavoro ma non lo trovano, mentre 1,4 milioni hanno proprio smesso di cercarlo.
In questo numero è racchiuso un disagio profondo, che incentivi economici o flessibilità normative concesse alle imprese non possono da soli risolvere. Perché occorre sottolineare anche questo, ossia che il grandissimo calo dei Neet, soprattutto dal 2021 a oggi, non dipende dalle politiche occupazionali del Governo, qualunque Governo si consideri, ma più semplicemente dalla ripresa dell’economia che ha riattivato la domanda di lavoro anche a vantaggio dei più giovani.
Resta poi sullo sfondo anche un’altra grande domanda: e chi non ce la fa? Perché se è positivo il recupero degli ultimi anni è anche probabile che a beneficiarne sia stato chi ha un profilo professionale e un pregresso formativo più appetibile; chi non soffre dei crescenti disagi psichici che colpiscono i più giovani; chi si trova in un territorio che offre delle opportunità occupazionali importanti. Altri, soprattutto le giovani donne e i ragazzi del nostro Mezzogiorno, rischiano invece di essere sempre più schiacciati da questi fattori esterni e non possiamo pensare che solo il mercato nel tempo riassorbirà tutti i problemi.
Perciò i festeggiamenti dovuti per questi numeri non devono portarci a credere che la strada per risolvere il problema dell’inattività e della disoccupazione giovanile sia stata avviata. Diventano anzi ancora più urgenti, per chi è ancora in queste condizioni, ecosistemi territoriali che funzionino e dove tutti gli attori che hanno a che fare con la formazione dei giovani, da un lato, e con il tessuto produttivo locale, dall’altro, si parlino mettendo al centro la risorsa più importante e scarsa (quantitativamente) che hanno a disposizione. È grave per questo che sempre più imprese dichiarino di aver definitivamente smesso di utilizzare il contratto di apprendistato e che il sindacato spesso non lo difenda come il principale canale d’accesso al lavoro anche per chi deve ancora costruirsi delle competenze. Allo stesso modo è grave che il dibattito sui tirocini si sia spostato a livello europeo, in una sorta di contratto di primo ingresso al lavoro, e sia assente in Italia. Guardiamo quindi con simpatia ai dati positivi che arrivano, ma senza dimenticarci che la strada è ancora lunga e va intrapresa insieme. Soprattutto non possiamo pensare che il problema sia delegabile alla sola politica. Quella dei giovani è, prima di tutto, una sfida educativa al senso del lavoro e di un senso per cui valga la pena vivere che parte dalle famiglie, dalle scuole, da una dimensione collettiva e comunitaria, che può educare ed essere punto di riferimento e di interesse, ormai sempre più sfumata. La responsabilità principale insomma è quella degli adulti perché se i giovani sono sempre soli e privi di solidi punti di riferimento e guide, la colpa non è certo la loro.