Riforma della previdenza. Giovani e bambini, se il futuro rischia di andare in pensione
Quando il cancelliere dell’impero tedesco, Otto Von Bismarck, nel 1891, introdusse per la prima volta nel Paese un’assicurazione previdenziale e sanitaria, lo fece con la nobile intenzione di migliorare le condizioni di vita di tutti i cittadini. Cosa che si verificò. Eppure Bismarck, cui dobbiamo la nascita del welfare in Europa, non poteva immaginare che l’assicurazione pensionistica avrebbe prodotto anche un altro effetto: la caduta della natalità. È triste da pensare, ma la necessità di destinare una parte del proprio reddito ai contributi necessari per godere di una vecchiaia serena aveva probabilmente reso i figli più "costosi" e allo stesso tempo meno "necessari". A mostrare l’esistenza di un legame tra il "welfare alla Bismark" e la diminuzione delle nascite in Germania è una ricerca di due economisti, Robert Fenge, del Centro per gli Studi demografici di Rostok, e Beatrice Scheubel, della Banca centrale europea. A considerazioni analoghe era giunto già una decina di anni fa il lavoro di ricerca dell’economista Vincenzo Galasso e del demografo Francesco Billari, entrambi alla Bocconi, valutando che le generazioni interessate dalle riforme previdenziali di Amato e Dini del 1992 e del 1995 avevano aumentato del 20% la fecondità rispetto alle persone cresciute nella stagione delle baby pensioni.
La promessa di una rendita previdenziale capace di mettere al sicuro il proprio avvenire tenderebbe dunque a svuotare le culle, mentre un welfare più austero e attento alla sostenibilità del sistema riporta l’attenzione sulla famiglia e sui figli. È veramente così? La questione è complessa e sarebbe un errore ragionare di previdenza solo in chiave demografica. Tuttavia, nel momento in cui la politica discute se ammorbidire gli effetti dell’ultima riforma previdenziale – quella che dal 2011 ha agganciato l’età pensionabile alle aspettative di vita – si può tener conto anche di queste valutazioni per capire cosa comporti destinare risorse pubbliche alla voce previdenza piuttosto che ad altri capitoli, come i neonati, le famiglie, la scuola, la formazione. Dal 2019 l’età per la pensione di vecchiaia aumenterà di altri cinque mesi, a 67 anni. Un livello record, che ha spinto i sindacati e diversi esponenti politici a chiedere di bloccare l’automatismo. Il governo si è opposto anche perché, come ha segnalato il presidente dell’Inps, Tito Boeri, il rischio è che la spesa aumenti di 141 miliardi da qui al 2035. Così in queste ore sul tavolo non c’è più uno stop generalizzato, ma uno sconto "chirurgico" solo per determinate categorie di lavoratori.
A prescindere dalle soluzioni, il tema riporta ancora una volta a riflettere sull’effetto di interpretare i diritti pensionistici guardando più a chi vota oggi rispetto a chi dovrà farlo domani. Perché la partita previdenziale non riguarda solo i diretti interessati, ma anche i più giovani, chi sta versando contributi oggi, chi sta crescendo figli e cerca di capire che Paese sarà l’Italia tra vent’anni. Generazioni cui l’evoluzione demografica ha già reso la pensione un benefit assai ridimensionato. In gioco è l’idea stessa di futuro: in un Paese con un debito pubblico elevato ogni nuova spesa va giudicata anche per le rinunce che produce. In questo senso il legame tra welfare e nascite è solo un campanello, ma può rivelare molto. Fino a metà anni 70 il tasso di fecondità in Italia era rimasto sopra i 2 figli per donna, ma nel 1995 era sceso al livello di 1,19, e c’è chi, come il demografo Alessandro Rosina, dell’Università Cattolica, ha mostrato la specularità del declino della natalità con il progresso del debito pubblico durante gli spensierati anni Ottanta. Nel decennio successivo, in contemporanea con le misure per il risanamento dei conti finalizzate all’ingresso nell’euro, la natalità è lentamente tornata a salire fino a raggiungere nel 2010 il livello di 1,46 figli per donna. Una ripresa durata poco: il nuovo e decisivo colpo al tasso di fecondità, oggi sceso a 1,34 figli, è stato assestato dalla crisi economica, che ha portato alla caduta dell’occupazione e, per un certo periodo, alle tensioni sugli spread e al logoramento delle prospettive di stabilità dei conti pubblici.
È nello scenario attuale di relativa calma, dovuta alle recenti riforme e alla politica monetaria della Bce, che in Italia si sta tornando a parlare di "sconti" sulle pensioni. Tra opportunità e qualche rischio. Perché se il tasso di fiducia in un Paese si misura anche dalla vitalità della sua popolazione, ad aver sottratto porzioni di speranza alle generazioni più giovani non sembra essere stata l’insicurezza previdenziale, quanto la carenza di competenze adeguate, la fragilità dei percorsi di formazione, il legame debole tra scuola e lavoro, le prospettive incerte sulla tenuta dei conti pubblici. L’ultimo rapporto dell’Ocse sulla "National skills strategy" ha rivelato che il 40% degli adulti italiani ha bassi livelli di competenze linguistiche e matematiche, più della media degli altri Paesi, al 27%; che il 21% dei lavoratori ha competenze inferiori a quelle normalmente richieste; che solo il 35% dei giovani italiani, contro una media del 50%, si iscrive all’Università.
Di fronte a queste cifre l’Ocse ha invitato Roma a dare piena attuazione a riforme come la Buona scuola e il Jobs act per migliorare i percorsi di formazione, aumentare le risorse per le politiche attive nel mercato del lavoro, l’istruzione, la formazione professionale, per incrementare i percorsi di alternanza scuola-lavoro. L’idea di concentrare molti più sforzi sui limiti del sistema formativo emerge da un altro rapporto, ancora dell’Ocse, che dimostra come il nostro sistema pensionistico mantenga intatta tutta la disuguaglianza conosciuta nella vita lavorativa. Giovani poveri oggi, cioè, saranno al 100% poveri anche domani. Il consiglio? Investire sui bambini, nelle opportunità di apprendimento e di formazione già dai primi anni di vita. È questa la migliore assicurazione per un futuro previdenziale sereno, più delle riforme che anticipano l’età per il ritiro.
Nei giorni scorsi il premio Nobel per l’economia James Heckman ha invitato il Congresso americano a introdurre un credito d’imposta rimborsabile per i contribuenti più poveri, così che possano sostenere le spese per la cura e l’istruzione dei bambini. L’idea di fondo è sempre la stessa: disuguaglianza e povertà si vincono aiutando adesso i più piccoli e i giovani a costruirsi le competenze necessarie, e l’autostima, per affrontare la vita da adulti. Forse la correlazione "più pensione meno figli" non deriva necessariamente da un rapporto di causa-effetto dettato dall’interesse. L’esperienza sembra dire che quando a migliorare è solo la sicurezza individuale, allora le persone prediligono comportamenti individualistici, quando a prevalere è la sicurezza collettiva, cioè la stabilità presente e futura di tutti, a imporsi è una visione di futuro che conduce anche alla famiglia e ai figli. La scelta, insomma, può essere tra un futuro che scarica i suoi costi sul presente e un presente che produce futuro. Se ne esce solo con un vero patto fra generazioni.