Mondo digitale. Giovani e anziani sono più soli. Il paradosso del «tutti collegati»
L’isolamento e le restrizioni dei rapporti sociali introdotti per arginare la pandemia da coronavirus hanno incrementato il disagio giovanile e favorito il rifugio nel mondo della realtà virtuale. Preoccupa la crescita degli «Hikikomori»
La globalizzazione è stata indubbiamente un evento epocale, avvenuto in tempi relativamente rapidi e indotto o certamente facilitato da uno sviluppo altrettanto epocale della tecnologia delle comunicazioni. Essa è stata salutata, almeno all’inizio come un evento favorevole per le popolazioni, mirante a una migliore socialità e collaborazione in quanto ha levato molti limiti agli spostamenti tra Paesi e continenti diversi, promuovendo l’idea che anche gli altri sono buoni e cattivi come noi, con gli stessi pregi e difetti.
Come scrive José Saramago, ci si aspettava che la globalizzazione significasse prima di tutto globalizzazione del pane, la fine della fame nel mondo, ma questo non è avvenuto; ed era possibile, perché è noto che tanto pane è buttato via, o in pance già piene accumula grasso e talvolta patologia come il diabete di secondo tipo. È accaduto invece, come questo giornale continua a documentare, che le disuguaglianze sono aumentate e i ricchi sono diventati ricchissimi e i poveri poverissimi. Mi domando se la globalizzazione abbia significato solo un apparente diverso costume di comportamento, un vestito di un altro colore che copre un corpo con la stessa vecchia anima egoista e con occhi che, per parafrasare ancora Saramago, vedono le disuguaglianze e le ingiustizie, le cui immagini impietosamente si depositano sulla retina, senza però smuovere il cervello della solidarietà.
La rivoluzione digitale ha cambiato il modo di comunicare, la parola ha perso la sua musica, che porta con sé tutti quei messaggi che è difficile dire, ed è diventata messaggio scritto, quindi visivo, su uno smartphone, volutamente e inevitabilmente sintetico e apatico. Ascoltare, che è comprensione del-l’altro, è ormai considerato perdita di tempo in una forma di egoismo individuale e di una fisiologia dell’indifferenza.
La globalizzazione e la digitalizzazione dell’individuo hanno fatto emergere, a mio avviso, tra gli effetti collaterali, il paradosso della solitudine: negli anziani, rimasti indietro nella cultura digitale sia tecnicamente che nel nuovo linguaggio che l’accompagna impedendo loro di conversare perfino con i figli; e anche nei giovani, i ragazzi Neet (not in education, employment or training), ragazzi o giovani adulti che non studiano, non lavorano, non seguono corsi di formazione e che purtroppo in Italia superano i 2 milioni, e i ragazzi Hikikomori (che vivono fisicamente appartati, autoisolati nella dimensione digitale). L’effetto di isolamento degli anziani era in gran parte prevedibile, a causa della difficoltà nell’acquisizione delle nuove tecniche; ma, benché terribilmente triste e cinico a dirsi, tale fenomeno è economicamente e anche socialmente trascurabile perché i tecnologi, fautori di queste innovazioni dicono o sperano che esso scomparirà con la generazione vivente 'adigitale'. Il fenomeno degli Hikikomori invece non era affatto prevedibile e va considerato nella sua gravità, nei suoi aspetti sociali, medici e anche politici. Questo fenomeno può essere interpretato non tanto o non solo come una sorta di ribellione giovanile contro la società del consumismo e l’assenza di valori morali e culturali, quanto come una malattia indotta da un cambiamento violento di paradigma culturale, che basato su tradizioni e leggi divenuti memi che passano di generazione in generazione, è stato sconvolto dalla rivoluzione digitale.
Non è un caso che il fenomeno si sia manifestato prima e più intensamente in Giappone dove le tradizioni sono state e sono guida assai rigida di comportamento e dove l’innovazione tecnologica è stata particolarmente attiva; né è un caso che il fenomeno sia particolarmente presente in famiglie borghesi dove le tradizioni sono più conservate. Il lockdown, il confinamento in casa dovuto al Covid-19, ha certamente aggravato il fenomeno e lo ha reso più evidente alle famiglie costrette anch’esse al confinamento. Nel valutare il fenomeno, bisogna anche considerare che il giovane cerca “fisiologicamente” il nuovo, valori e scopi diversi per vivere e allo stesso tempo è in fuga dai suoi bisogni vegetativi.
I ragazzi Hikikomori sono giovani, di età compresa tra 11-12 anni e 27-28 anni, che si rinchiudono nella propria stanza, isolandosi dal contatto con altre persone e vivono utilizzando unicamente la connessione telematica, spesso anche con l’inversione degli orari sonno-veglia. Questo comportamento si insinua progressivamente e comporta la rarefazione o più spesso l’abbandono della frequenza scolastica e dei rapporti sociali, fino a un completo isolamento anche rispetto alla famiglia. Il mondo virtuale finisce per sostituire del tutto quello reale. Il fenomeno è iniziato in Giappone dove il numero di questi ragazzi supera già i 2 milioni ed è in espansione. In Italia il numero dei ragazzi Hikikomori è intorno ai centomila e in espansione particolarmente nelle regioni del Centro Nord a più alto sviluppo tecnologico. Vi sono osservazioni che suggeriscono che l’isolamento e le restrizioni dei rapporti sociali introdotte per arginare la pandemia da coronavirus abbiano incrementato il disagio giovanile e favorito il rifugio nel mondo della realtà virtuale. Sembra che ci sia una relazione (ancora non statisticamente quantificata) tra Paesi o città ad alto sviluppo tecnologico e numero dei ragazzi Hikikomori, come se lo sviluppo tecnologico agisse da attrattore verso una realtà diversa. In Giappone si è sviluppato, ad aiuto dei genitori, un nuovo tipo di occupazione, quello di studentesse che, dietro pagamento, contattano gli Hikikomori, principalmente maschi, cercando di reintrodurli a maggiore socialità.
In Italia il fenomeno dell’isolamento dei giovani è stato sottovalutato: solo il Gruppo Abele, guidato da don Luigi Ciotti, ha colto con tempestiva sensibilità l’importanza del fenomeno che può minare futuro e salute dei giovani. Nel cuore di Torino è già stato organizzato un “centro diurno” che – con un “laboratorio di espressione corporea” e un “laboratorio sulle tecnologie” – ha il progetto di riportare a una normale vita sociale e occupazionale i soggetti isolatisi, grazie a un intervento personalizzato, non sempre e, comunque non completamente di natura clinica, quanto piuttosto educativo socializzante, con rapporti prevalenti con altri ragazzi. Per questo l’Accademia dei Lincei ha assegnato per 2020 al Gruppo Abele il premio Antonio Feltrinelli «per un’impresa eccezionale di alto valore morale e umanitario » . Mi permetto di aggiungere, con un pizzico di orgoglio, che il collega Aldo Montesano e io siamo stati tra i relatori del progetto e l’abbiamo sostenuto con grande convinzione.
Presidente emerito Accademia dei Lincei