C’è un giorno che è come nessun altro. Perché libero, festivo, speciale. E che perciò va preservato dall’obbligo invadente del lavoro, del vendere e del comprare. In difesa della Domenica – del
Dies dominicus – così, domani scenderà nelle piazze di 12 Paesi europei una "santa alleanza" laica. Costituita da sindacati di varia estrazione, associazioni della società civile, assieme alle comunità cattoliche, protestanti e ortodosse. Tutti uniti nella
European sunday alliance, appunto, per ribadire il carattere particolare e fondamentale della domenica. Il problema è di tutto il Continente, per le spinte sempre più forti a produrre e vendere a ciclo continuo. Nel nostro Paese, però, i volantinaggi che saranno organizzati dalle federazioni del commercio di Cgil, Cisl e Uil in una decina di città assumono un significato particolare all’indomani del decreto "Salva-Italia". A fine 2011, infatti, il governo Monti ha improvvidamente liberalizzato gli orari dei negozi, che potranno restare aperti 24 ore su 24, e tutte le 52 domeniche di un anno. Una norma non ancora pienamente in vigore – e sulla quale alcune Regioni hanno già annunciato ricorso alla Consulta – ma che è emblematica di una deriva culturale. Un nuovo "pensiero unico" che maschera come una maggiore libertà e progresso, ciò che in realtà è un impoverimento e una restrizione della libertà stessa, senza alcuno sviluppo certo. Beninteso, il lavoro domenicale è sempre esistito e nessuno ha mai posto in dubbio che vadano assicurati i servizi essenziali: dalla sanità ai trasporti. Così come nelle località turistiche, l’accoglienza viene assicurata anche e soprattutto nelle festività, compensando col riposo in altri giorni e tempi dell’anno. Ma spingere perché l’intero commercio (e su un piano parallelo l’industria) adotti un modello di apertura senza soluzione di continuità, denuncia una visione meramente economicista. Espone un numero sempre crescente di lavoratori allo stress di barcamenarsi tra turni improbabili, con le immaginabili difficoltà a seguire i figli, a stare insieme in famiglia, a vivere la domenica come il giorno non solo del riposo, ma della riflessione personale, della preghiera per i credenti, della partecipazione alla vita comunitaria per tutti. La crisi, sostengono in molti, si batte moltiplicando le occasioni d’acquisto, facendo ripartire i consumi interni. Una teoria economica tutta da verificare, quando per molte famiglie a far difetto sono le entrate. Quando i salari sono fermi da anni e l’inflazione erode grandemente il potere d’acquisto. Ma che, soprattutto, svela il vero ribaltamento di valore nel quale si rischia di lasciar scivolare le domeniche e le festività. Al centro, infatti, viene posta la merce, lo scambio profittevole, tutt’al più un tempo libero da riempire di divertimento a pagamento, in quei centri commerciali destinati a soppiantare il ritrovarsi nelle piazze cittadine. Perdendo la dimensione della gratuità dei rapporti fra le persone, che – secondo una grande tradizione ebraico- cristiana che si è fatta tradizione civile – è invece proprio la cifra costitutiva della festa. Il rischio è che le domeniche vengano frammentate, rese omogenee agli altri giorni della settimana. Come un martedì o un giovedì qualsiasi, che differenza fa riposare in mezzo alla settimana? Il tempo della festa viene scomposto, sminuzzato in tanti periodi di "riposo" singolo. Si perde così la possibilità di sincronizzare con gli altri il proprio tempo, di fare 'festa assieme', veramente liberi. Un paradosso della modernità: sempre interconnessi tramite le tecnologie, mai liberi di incontrarsi tutti insieme in un tempo reale e non virtuale. E una società asincrona, dove ognuno vive il proprio tempo non coordinato con quello degli altri, è un tessuto più fragile, più povero, non certo più ricco. Tutto, in fondo, oggi si può vendere e comprare. Ma la domenica, che è la nostra libertà insieme personale e collettiva, non ha prezzo.