Inchiesta. Così i giornalisti investigativi africani denunciano corruzione e malaffare
Anas Aremeyaw Anas, ghanese di circa 40 anni, è il reporter più conosciuto d’Africa. Cela il suo volto per proteggersi
Negli ultimi dieci anni pochi hanno visto il suo volto. Solo i suoi più stretti familiari, amici e collaboratori. Anche la sua data di nascita esatta è ignota. Eppure, Anas Aremeyaw Anas, ghanese di circa 40 anni, è il giornalista investigativo più conosciuto del continente africano. Lavora con media locali e internazionali. Spesso usa telecamere nascoste per mostrare le prove dei suoi reportage. Per celare la sua identità, invece, utilizza solitamente un cappello da cui scende una cascata di treccine che gli coprono interamente il volto. L’unica volta che ha accettato di mostrarsi in un’intervista con la Bbc, il suo viso è stato alterato elettronicamente per renderlo irriconoscibile. L’anonimato è la sua maggiore protezione. Attraverso i suoi documentari, Anas ha infatti svelato gli alti livelli di corruzione nel calcio, denunciato casi di stregoneria e schiavitù e mostrato il dietro le quinte del sistema giudiziario deviato in Ghana. Il suo lavoro si scontra sempre con i poteri forti delle società africane. Il suo motto è: “Name, shame, and jail”, nominare, svergognare e imprigionare.
Anas ha studiato giornalismo al Ghana Institute of Journalism. Vent’anni fa è cominciata la sua carriera. Dopo aver rifiutato di lavorare per il quotidiano del governo, Ghanaian Times, ha scelto di scrivere per una pubblicazione non statale, Crusading Guide. «Nel 2009 ho condotto il mio primo reportage investigativo», ha racconta Anas, intervistato dalla giornalista Antonella Sinopoli nel 2016, al festival di giornalismo di Perugia. «Avevo sentito di una strada in Ghana in cui giravano trafficanti di droga e poliziotti corrotti. Mi sono quindi finto venditore ambulante di noccioline, documentando il modo in cui gli agenti di polizia si facevano pagare dai passanti. Tutti i poliziotti furono licenziati dopo la pubblicazione di questa storia». Uno dei più recenti servizi di Anas per la Bbc affronta il traffico di organi in Malawi. Insieme a una squadra di giornalisti locali, Anas si è finto un facoltoso uomo d’affari. Il suo obiettivo era portare alla luce le identità dei maggiori trafficanti e guaritori tradizionali che promettono prosperità e salute a chi compra pozioni o amuleti fatti con parti umane. Alcune di esse sono ricavate dai cadaveri, altre – tragicamente – da persone che vengono uccise proprio per tale motivo.
Sebbene il governo del Malawi abbia vietato la stregoneria da qualche anno, Anas ha dimostrato come tale pratica sia ancora molto diffusa. La situazione per il team investigativo diventò complicata quando un gruppo di persone li accusò di essere loro stessi trafficanti e di voler assassinare la gente del posto. Anas e i suoi collaboratori furono quindi attaccati con bastoni, machete, coltelli e sassi. Il reporter venne colpito in testa da un sasso e una coltellata gli sfregia lo ferì di striscio. Cadde ma riuscì a rialzarsi poco dopo. Intanto alcuni poliziotti del villaggio riuscirono a fare scudo con i propri corpi ai giornalisti che, a quel punto, si fecero riconoscere mostrando le tessere con il logo della Bbc. Nel 2015, invece, Anas produsse uno dei suoi servizi più famosi. Dimostrò infatti come gran parte dei funzionari della giustizia ghanese fossero pronti a farsi corrompere per aggiustare le sentenze. Il reportage provocò l’arresto di decine di giudici, avvocati e dipendenti governativi. «Il giornalismo investigativo è una necessità per l’Africa», ha affermato più volte Anas. «Viviamo in Paesi colpiti da siccità, fame, corruzione e guerre. Proprio per questo – spiega – abbiamo bisogno che il giornalismo si occupi delle storie che possano avere un grande impatto sulla società e riescano a cambiare la realtà».
Come Anas, altri giornalisti investigativi rischiano ogni giorno la vita per il loro lavoro. Non hanno scorte e le autorità si rifiutano di proteggerli. Anche perché, nella gran parte dei casi, sono proprio le autorità a essere prese di mira. Come per Ahmed Hussein-Suale, un membro della Tiger Eye Private Investigation, la squadra investigativa di Anas, ucciso con tre colpi di pistola mentre era in auto ad Accra la sera del 16 gennaio scorso. In precedenza, a causa di un documentario che svelava la corruzione nel settore calcistico locale, un deputato del parlamento ghanese l’aveva minacciato pubblicamente. Alcuni di questi cronisti d’inchiesta, per ragioni legate alla loro sicurezza, hanno ormai deciso di mostrare il loro volto in pubblico il meno possibile. «Da qualche anno rifiuto gli inviti nelle trasmissioni televisive privilegiando invece quelli alla radio – racconta ad 'Avvenire' Idelphones Koffi Koba, giornalista investigativo togolese e direttore della 'Gazzetta del Togo' –. Il mio lavoro viene infatti ostacolato ogni volta che vengo riconosciuto dalla gente nei villaggi durante le mie inchieste». Koba è stato l’autore di un articolo che, all’inizio degli anni 2000, aveva dimostrato i legami tra il traffico di droga in Togo e alcuni uomini di potere tra cui il defunto presidente Gnassingbé Eyadema. In seguito alla pubblicazione, il cronista togolese è dovuto fuggire nel vicino Benin, dove ha vissuto per alcuni anni prima di poter rientrare e riprendere a svolgere la sua professione.
In Kenya, il volto più noto del giornalismo investigativo è quello di Mohamed Ali Jicho Pavu, meglio conosciuto come Moha, diventato deputato dell’opposizione nel 2017. Il giovane cronista è ammirato per il suo coraggio e per i filmati che hanno esposto le malefatte di politici, funzionari dell’esercito, criminali e falsi leader religiosi. A chi gli domanda come mai sia ancora vivo, Ali risponde semplicemente: «Dio esiste». Mohamed aveva inizialmente lavorato per l’emittente statale Kenya Broadcasting Corporation (Kbc), poi in una radio locale e, infine, è passato alla Kenya Television Network (Ktn) per diventarne il responsabile delle inchieste. La sua fama ha avuto inizio nel 2007, durante le violenze elettorali, quando accusò la polizia di crimini contro cittadini comuni scambiati per membri dei Mungiki, un gruppo di stampo mafioso. Nel 2006, fu minacciato di morte in seguito ai suoi servizi che criticavano i politici del Jubilee, la coalizione di partiti al governo. «Sei un giovane ragazzo appena sposato e con un bambino – recitava un messaggio di minaccia che ricevette –, lascia stare il Jubilee perché ho il potere di distruggerti». Per niente intimorito, Moha decise di pubblicare il testo sui suoi social.
Vicissitudini ancora più gravi sono state vissute da Rafael Marques de Morais in Angola. Il suo lavoro giornalistico d’inchiesta gli ha causato periodi in prigione, torture e minacce alla sua famiglia. Per anni, de Morais ha denunciato la corruzione dell’ex presidente José Eduardo Dos Santos, dell’esercito e di alcuni uomini d’affari. Tutti implicati nello sfruttamento degli enormi giacimenti minerari e petroliferi del Paese. A livello di testate giornalistiche e non di singoli reporter, Wikileaks e il Consorzio internazionali per il giornalismo investigativo (Icij) in Africa hanno scelto il quotidiano nigeriano 'The Premium Times'. Grazie alle sue risorse e alla sua autorevolezza, questo giornale è riuscito a pubblicare importanti articoli che hanno fatto luce sulla corruzione che dilaga nel Paese. Politici e uomini d’affari nigeriani, per esempio, sono stati collegati ai Panama Papers (fondi portati nei paradisi fiscali), grazie a un lavoro meticoloso e, spesso, condotto in segreto. Lo stesso tema è stato affrontato in Sudafrica dall’AmaBhungane, un’organizzazione per il giornalismo investigativo. Il suo crudo motto è “raccogliere escrementi per fertilizzare la democrazia”. Le sue inchieste, non solo in Sudafrica ma in tutta l’Africa meridionale, hanno svelato di recente i rapporti non trasparenti della potente famiglia Gupta e hanno portato alla caduta in disgrazia dell’ex presidente sudafricano, Jacob Zuma.