Come si difende la libertà di stampa. Giornali e ossa
I primi a domandarsi, giustamente, chi fosse stato a mettere in collegamento con la vicenda Orlandi le ossa umane ritrovate in un locale annesso alla sede della Nunziatura Apostolica in Italia sono stati proprio i familiari di Emanuela. Alla loro domanda non è ancora stata data risposta, se non dalla Santa Sede, che con il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ha negato di aver formulato tale ipotesi. Chiunque altro sia stato, comunque, ha sbagliato, perché ora sappiamo che i primi esiti degli esami eseguiti su quelle ossa sono già sufficienti a escludere che si tratti dei resti della ragazza scomparsa nel nulla 35 anni fa. Oppure di Mirella Gregori, la coetanea di Emanuela sparita nello stesso 1983. Le ossa risalgono infatti agli anni 60 e sono di un uomo. Eppure, neanche un mese fa, tutto sembrava chiaro alla quasi totalità delle agenzie d’informazione e dei quotidiani italiani. Basta scorrere i titoli, per lo più "urlati", del 31 ottobre e del primo novembre: la stragrande maggioranza mette in relazione quelle ossa con il «caso Orlandi», molti non resistono alla tentazione di aggiungere un tocco di «giallo» o di «mistero» che, ovviamente, «sconvolge il Vaticano». Peccato che fossero state proprio le autorità vaticane, come per altro è riferito nei vari articoli, a informare del ritrovamento la magistratura italiana, così da avere collaborazione nelle indagini. Un’agenzia si è spinta fino a pubblicare un pezzo su Elisa Claps con il titolo «Caso Orlandi: eco vicenda rimbalza a Potenza», dove nel 2010 fu rinvenuto il cadavere della povera ragazza uccisa da un uomo che è poi stato condannato a 30 anni di carcere. Qual era il nesso? Semplice: il corpo di Elisa fu nascosto dall’assassino nel sottotetto della canonica di una chiesa.
Ma certo, la Chiesa. Niente di più ghiotto che poter associare in qualche modo la Chiesa e il Vaticano a misteri, gialli, fatti di sangue. Molto minore l’interesse (e più piccoli i titoli) quando il sangue è quello dei missionari uccisi e dei milioni di cristiani perseguitati nel mondo.
Forse Pavlov lo avrebbe classificato come riflesso condizionato, ma noi non siamo fisiologi e nemmeno neurologi. Siamo giornalisti e sappiamo che la notizia, quando c’è, va data: è un dovere, prima ancora che un diritto. Ma la prudenza (soprattutto per vicende così complicate e dolorose, già in passato messe in relazione con piste poi rivelatesi infondate) resta una virtù, anche giornalistica.
Senza contare che c’è anche un aspetto pratico della questione: fin dai giorni successivi – con l’emergere di alcuni dettagli e di pareri scientifici, seppure parziali e, appunto, prudenti – i titolisti hanno dovuto in effetti accantonare la granitica certezza che si trattasse del «caso Orlandi» o del «caso Gregori», con un gran lavoro di sfumatura.
Chissà, adesso, se a qualcuno interesserà sapere di chi siano davvero quei poveri resti e del motivo per cui si trovassero in quell’edificio che, lo ricordiamo, non è stato sempre nella disponibilità della Santa Sede. Vizi antichi di un certo modo di fare informazione. Che di sicuro non aiutano in un momento come quello attuale, in cui si cerca di limitare la libertà della stampa con i mezzi più diversi: fake news, insulti pubblici, perfino atti normativi mirati a far male al pluralismo giornalistico. Ma proprio per dimostrare che non siamo quella 'casta' che qualcuno ci accusa di essere, è bene ogni tanto criticarsi.
Costruttivamente, però senza sconti. Meglio ancora sarebbe, quando serve, auto-criticarsi. Gli sviluppi di alcune notizie, i sentimenti delle famiglie coinvolte e la nostra credibilità sono troppo importanti per farli bruciare da un riflesso condizionato.