Nel ventre della Parola / 8. Giona e la sua vocazione di difendere la verità di Dio
«Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece» (Giona 3,10). Il Dio biblico ha molti aggettivi qualificativi (misericordioso, giusto, buono...). Tra questi c’è anche “capace di pentimento”. La Bibbia ci mostra infatti un Dio che cambia idea, sguardo, perché fa parte dell’amore-agape saper cambiare, anzi ne è nota essenziale. Perché se il Dio biblico è il garante dei nostri amori e dei nostri perdoni, allora deve essere capace anche di pentirsi e di mutare sguardo, perché è in questi cambiamenti di prospettiva e in questi pentimenti dove si trova l’anima dei rapporti umani. Il terzo capitolo di Giona si conclude con questa metanoia di YHWH, una chiusura che poteva anche essere una buona conclusione del libro. E invece quell’antico autore ci ha voluto donare un ultimo bellissimo capitolo, aperto da un’altra congiunzione avversativa, un altro “ma”: «Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato» (4,1). Altre traduzione scrivono: «Giona provò una collera enorme» (L.Alonso Schökel); «E fu male a Giona, un male grande, e si accese» (Erri de Luca); «Giona si sentì profondamente contrariato e si arrabbiò» (Donatella Scialoia).
Allora Giona pregò YHWH: «Ahi YHWH, me lo dicevo già quand'ero nel mio paese! Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Elohim misericordioso e pietoso, lento all'ira e grande nell’amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. Or dunque, YHWH, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!» (4,2-3). Alla sua preghiera che qui diventa protesta, Dio risponde: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?» (4,4). Giona non replica con altre parole, parla con i piedi: «Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all'ombra» (4,5). Come noi, quando terminiamo una litigata sbattendo una porta e il dialogo continua non tornando a cena.
Anche se molti hanno cercato di smorzare la forza teologica ed etica di questo brano e di tutto il libro attribuendo al testo il genere letterario umoristico (dimenticando, tra l’altro, che l’umorismo biblico è anche teologico), credo che qui ci troviamo di fronte a uno dei passaggi più importanti dell’intera Bibbia. Giona discute con Dio, ne critica l’operato. Parla con Dio per protestare, per litigarci. Come Giobbe. Ma Giobbe non è un profeta, è “soltanto” un uomo giusto. Il valore di questi versi del libro di Giona sta nella natura-vocazione del suo protagonista: Giona è un profeta, dialoga con Dio protestando, e questa litigata viene definita preghiera - nella Bibbia, il litigio è una forma della preghiera. Che l’homo biblicus fosse un essere capace di dialogo con Dio, lo sapevamo già dai primi capitoli della Genesi; ora, anche se lo avevamo intravisto indirettamente con Geremia (cap. 20), con Giona scopriamo che anche il nabi, il profeta, ha nel suo repertorio la polemica con Dio: non è esecutore passivo di ordini, dice la sua, protesta prima durante e dopo le parole ricevute.
Molta della dignità antropologica biblica si trova in questi dialoghi, in queste litigate terra-cielo, che ci svelano un Adam creato così libero da poter interloquire (quasi) alla pari con Dio - «eppure lo hai fatto poco meno degli Elohim» (Salmo 8). L’homo biblicus è stato equipaggiato con una dignità talmente alta da diventare infinita: non è un essere sottomesso a un sovrano, non è un suddito, non è un servo: è figlio, e come tutti i figli liberi ogni tanto litiga con i genitori, perché bisticciare con il padre e la madre è parte essenziale del buon mestiere dei figli (e dei genitori): gli schiavi non litigano con i padroni, i figli e le figlie sì e litigando dicono al padre che non è il loro padrone - la fraternità tra figli e genitori inizia litigando.
In questa protesta di Giona c’è allora una radice del processo che nei secoli ha portato donne e uomini a liberarsi da un Dio-padrone e quindi a litigare con Dio per il dolore innocente del mondo, per le ingiustizie, per le cattiverie, per i genocidi. C’è anche Giona dietro le pagine del Grande Inquisitore di Dostoevskij, sotto l’uomo folle di Nietzsche che annuncia nel mercato l’uccisione di Dio, dietro tutti coloro che continuano a litigare con Dio perché non si accontentano delle risposte troppo semplici - e se dietro ciò che oggi appare ateismo o grande indifferenza ci fosse una lunga e profonda lotta con Dio?
Perché Giona si arrabbia con Dio? Le risposte sono state sempre molte, dal nazionalismo di Giona (la conversione di una città pagana era una condanna della non-conversione di Israele) alla meschinità di Giona che si arrabbia solo perché Dio gli ha fatto fare una figuraccia con gli abitanti di Ninive, facendolo passare per falso profeta o ciarlatano. Credo invece che alla luce di tutta la Bibbia (e della storia umana) si possano cercare altre spiegazioni più generative. Intanto, ciò che è certo è che per Giona “quella conversione di Dio” fu qualcosa di molto serio e vitale, al punto che chiede a Dio di farlo morire - toglimi la vita. Qui torna Elia, altro grande compagno di viaggio di Giona, che lo accoglie sotto la ginestra della sua depressione spirituale (1 Re 19,4.
Capiamo una prima dimensione dell’arrabbiatura di Giona se guardiamo alcune storie di persone che hanno cercato di seguire, con libertà e sincerità, una voce. Dopo una prima protesta e un primo “no” che ci hanno condotto nella direzione sbagliata (Tarsis), un giorno arriva uno choc, un evento inatteso e provvidenziale che ci converte, ci rimette sulla strada che non avevamo voluto seguire all’inizio. Torniamo miti a casa, il padre uccide il vitello grasso e magari quella volta anche il fratello maggiore partecipa al banchetto. Riprendiamo il nostro “mestiere”, svolgiamo finalmente il compito. Giungiamo a Ninive, portiamo il messaggio che dovevamo portare, e lì ci attende un’altra sorpresa: questa volta a cambiare non siamo noi, è Dio che si converte e ci spiazza ancora.
La prima reazione in queste sterzate seconde è spesso quella di Giona: «Siccome sapevo che sei misericordioso e pietoso e cambi idea, fuggii a Tarsis perché non credevo che saresti stato di parola». Finalmente abbiamo la spiegazione che lo stesso Giona dà alla sua disubbidienza: Giona non credeva che quella minaccia di distruzione fosse credibile. Ci convinciamo che avevamo fatto bene a disubbidire la prima volta, e quindi avevamo fatto male a convertirci dopo - “lo sapevo che quella volta non dovevo cambiare idea, che stupido sono stato, ho buttato via la mia vita!”.
Esperienze tremende perché, diversamente dal racconto di Giona, nella nostra vita tra il primo no e l’ultima litigata trascorrono anni, decenni, c’è l’investimento degli anni migliori della nostra vita. Ritrovarsi soli sotto la capanna è quasi sempre accompagnato da macerie, malinconie, depressioni, salute persa, letture spietate, inconsolabili e disperate del nostro passato. È l’età del rimorso, del rimpianto, che qualche volta produce una rabbia più violenta di quella di Giona. Nei casi peggiori queste persone avvelenate spendono il resto della vita nutrendosi della loro stessa rabbia, fino a morirne intossicati, come in una malattia auto-immune. Si può riuscire (non è facile!) a superare bene la tappa di Giona sotto la capanna se, un giorno, si scioglie quel nodo dell’anima e finalmente si capisce che ciò che vale è la vita di oggi, e che domani può iniziare una vita nuova e migliore - si può risorgere anche 70 o 90 anni -; e diventa evidente che ciò che abbiamo imparato sulla vita, su noi stessi e su Dio, è una eredità dal valore infinito, che sovrasta tutti gli altissimi costi sostenuti, è la caparra buona del presente e del futuro. E inizia una fase meravigliosa della vita, la rabbia fiorisce in mitezza e pietas, e ci si sente al centro di un amore gratuito infinito mai conosciuto prima.
Ma in questa tappa di Giona c’è ancora qualcos’altro, ci può essere qualcos’altro. I profeti sono i grandi amanti della parola, lo sappiamo. Per questo sono anche i suoi custodi; ciò che sappiamo meno è che i profeti sono anche i difensori della parola nei confronti di Dio. Il primo, essenziale e vitale compito del profeta è proteggere la parola, anche quando l’emittente di quella parola cambia idea, fino a difendere la parola di Dio da Dio. Tutta la Bibbia è custode (shomer) della parola, una custodia assoluta che le ha consentito di conservare intatta la sua capacità performativa, il suo grande dono nel nostro tempo popolato da infinite chiacchiere. Se Isacco (Gn 27), scoperto l’imbroglio di Giacobbe, avesse ritirato e annullato la parola detta, tutta la parola biblica avrebbe perso potenza e valore; e persino l’assurda e raccapricciante storia della figlia di Iefte (Gd 11,34 ss.) dice l’infinito valore-costo della parola biblica. Ma mentre i vari personaggi biblici difendono la verità della parola di Dio, i profeti fanno qualcosa di più e di inaudito: difendono la parola da Dio.
È allora troppo poco, e banale, pensare che Giona si arrabbi con Dio perché, cambiando idea, gli ha fatto fare una figuraccia a Ninive. È molto più biblico pensare che Giona stia difendendo la verità della parola da Dio, e per questo si arrabbia. E così dimostra di essere un profeta vero: perché ciò che gli interessa è non far fare una figuraccia a Dio e alla sua parola, non a se stesso. Questa speciale custodia della parola per il profeta è più importante della capacità di conversione di Dio - la Bibbia è piena di contrasti tra valori buoni, per esempio, verità e amore -, perché se la parola non è roccia salda salta la natura della sua vocazione, e con essa il confine robusto tra profeti veri e falsi. C’è anche questa totale fedeltà alla parola dentro il Prologo del vangelo di Giovanni: quella parola-logos diventata carne diede alla carne una dignità infinita perché tutta la Bibbia, con i profeti, aveva reso infinita la dignità della parola.
Il paradosso di Giona si apre all’interno del paradosso della profezia, un paradosso di un’obbedienza del profeta alla parola più radicale dell’obbedienza a Dio, e per questo protegge Dio come farebbe un suo alleato, non un suo schiavo. Noi non siamo profeti, nondimeno possiamo intuire qualcosa di questo paradosso vitale della profezia: chi nella vita ha avuto un compito e lo ha svolto con verità e responsabilità, sa che i giorni cruciali sono stati quelli della protezione di quella parola (compito o opera) da chi gliela aveva consegnata. Ha dovuto continuare a crederci quando chi lo aveva “chiamato” non parlava più o aveva cambiato idea. E dentro fedeltà paradossale è fiorita la sua vera vocazione.
l.bruni@lumsa.it