Opinioni

Il Paese terreno di scontro geopolitico. Quei feroci giochi di potere sulla pelle dei siriani

Riccardo Redaelli martedì 23 aprile 2013
È quasi impossibile tenere il conto dei massacri, ormai. Uno stillicidio di morti, stragi, esecuzioni sommarie, accuse e controaccuse fra il governo di Bashar al-Assad e le milizie dell’opposizione siriana, sempre più dominate dai gruppi jihadisti. Uno scontro feroce e senza vincitori per il momento, ma con solo sconfitti, primi fra tutti gli abitanti del Paese, ormai alla mercè di una violenza senza freni. Una guerra, quella siriana, che ha ormai perso la sua caratteristica di guerra civile interna alla Siria per divenire una proxy war, una guerra per procura che va al di là del confini siriani. Perché è chiaro ormai come l’oggetto vero del contendere sul campo non sia più l’abbattimento di una dittatura invasiva e sanguinosa, al potere da decenni, a favore di un nuovo sistema politico più rappresentativo e democratico; la posta in gioco è piuttosto il tentativo di isolare ulteriormente la repubblica islamica dell’Iran e di frammentare l’arco sciita mediorientale. La polarizzazione delle differenze fra sunniti e sciiti degli ultimi decenni e la rivalità crescente fra Arabia Saudita (araba e sunnita) e l’Iran (persiano e sciita) non si ferma al Golfo Persico. Si combatte in tutta la regione: dall’Afghanistan e Pakistan in Oriente, a Libano, Siria e Iraq in Occidente.Di fatto, la Siria oggi sostituisce l’Iraq quale terreno di scontro e di contrapposizione geopolitica. Lo dimostrano il sostegno di Teheran e delle monarchie petrolifere ai due opposti schieramenti, la presenza crescente di Hezbollah come "puntello militare" degli al-Assad e la crescita delle milizie jihadiste e filo-qaediste fra gli insorti. Molti dei combattenti (e dei terroristi) che hanno insanguinato l’Iraq, facendo strage per anni di civili sciiti, militari americani e soldati iracheni combattono ora contro il regime alawita di Damasco, assieme a veterani dell’Afghanistan e della Libia. Si moltiplicano le denunce, di ragazzi strappati a forza dai villaggi per finire a combattere con le forze "della resistenza". Pochi giorni fa la stessa Turchia, fra le potenze più attive nel sostenere le forze anti-governative, ha dovuto muovere le proprie forze di sicurezza per liberare decine di ragazzi arruolati a forza dalle milizie jihadiste.In questo scenario, la capacità di intervento della comunità internazionale sembra estremamente limitata. Da un lato, la Russia ha troppo da perdere dalla caduta del regime baathista per abbandonare al-Assad; dall’altro lato, gli Stati Uniti sembrano esitare nel rafforzare il proprio sostegno all’opposizione siriana. A Washington si teme che la fine di un regime detestato spinga al potere gruppi estremamente violenti e radicali. Di fatto, stiamo pagando la fretta con cui, all’inizio delle violenze, l’Occidente ha voluto riconoscere le forze dell’opposizione siriana quali interlocutori e, anzi, legittimi rappresentanti del popolo siriano. Senza prima fare chiarezza e imporre l’accettazione di una piattaforma condivisa e condivisibile. Quali garanzie offrono oggi le milizie dell’opposizione, ove emergono con forza i guerriglieri di Jabhat al-Nusra (il Fronte al Nusra), la cui ideologia jihadista e filo qaedista non può non inquietare? La Siria che essi immaginano è un emirato dominato da un islam intollerante, che deve spazzar via gli alawiti – considerati alla stregua di apostati – e la comunità cristiana. Come sempre accade – e l’Iraq ne è un triste esempio – sono proprio le comunità cristiane, le meno settarie e prive di milizie proprie, a finire travolte da questo regolamento di conti geopolitico fra sunniti e sciiti, come viene tragicamente confermato dal rapimento di due vescovi ortodossi perpetrato ieri.Ma è tutta la Siria che rischia di passare da un estremismo cattivo a uno peggiore. Dopo due anni di scontri dovrebbe essere chiaro che la via per la fine delle violenze non passa dalla "spallata militare" contro al-Assad. Quanto piuttosto dalla ripresa di un’azione politica, senza precondizione, che punti a coinvolgere tutte le parti in gioco e tutte le comunità siriane nell’elaborazione di una piattaforma di pochi punti condivisi e di regole da accettare.