Volti di speranza. La prima confessione che mi ha fatto diventare prete
Un giovane Maurizio Patriciello, prima di diventare sacerdote
Il discorso si fa serio. Prete? Possibile che il Signore mi voglia prete? E perché, allora, non mi ha acciuffato negli anni della mia prima giovinezza? Perché non mi ha impedito di girare a lungo a vuoto? Che cos’è la vocazione? Non so per gli altri, ma per quanto mi riguarda penso che sia qualcosa di molto simile a quando ti becchi una cotta per una persona e inizia quel tempo, per certi aspetti anomalo, che va sotto il nome di innamoramento. Tutto gira attorno a lei: i pensieri, i programmi, le attese, gli umori, le risate, le serate. Tutto dipende da lei: la gioia, l’ansia, l’ insonnia, i sogni, le vacanze. Un tempo strano, quello dell’innamoramento, possiamo dire quasi patologico, ma necessario. Un tempo provvisorio. Guai se non dovesse esserci, guai se dovesse protrarsi più del dovuto. Un tempo di mezzo. Propedeutico. Un tempo da tenere sotto osservazione. Il tempo della gravidanza che precede il parto. È l’amore la spiaggia dove dovrà andare serenamente ad approdare. È l’amore il sentimento bello, pacato, maturo, sereno, destinato a durare nel tempo e a portare frutti. Se l’innamoramento è la scintilla, l’amore è il fuoco che illumina e riscalda.
Credo – parlo della mia esperienza personale – che la stessa cosa accada quando dall’altra parte non c’è un essere umano ma Dio. Ti ammalia.Ti attira. E tu prendi una cotta. Tutto il tuo essere gira attorno a Lui. In modo esagerato, disordinato, oserei dire, quasi doloroso. Divori la Bibbia. Preghi. Cerchi la compagnia di chi, come te, sta calcando i medesimi sentieri. Nulla ti soddisfa. Tutto ti appare superficiale. Rischi di diventare antipatico, pesante, pedante. I vecchi amici non ti capiscono. Gli antichi divertimenti non ti appagano. Cerchi la solitudine o la compagnia di uomini e donne di fede. Li cerchi tra la gente se vivi, o nei libri se già passati all’altro mondo. È in queste condizioni che, dopo l’incontro con fra Riccardo, arrivo a Lourdes. Niente mi dà gioia. Eterno insoddisfatto. La scintilla iniziale non è ancora divampata in fiamma stabile. Sento di essere alla vigilia di qualcosa d’importante che intravedo ma a cui non so dare un nome. Guidato dal mio padre spirituale cerchiamo, insieme, di capire che cosa il Signore va preparando per me. Lui è calmo, sereno, io non troppo.
Eccomi a Lourdes. Non ci sono mai stato. So solo che in questo luogo benedetto la Madonna apparve a Bernadette, nient’altro. Parto con il treno degli ammalati. Mi offro volontario. Al santuario divido il mio tempo tra la cura dei fratelli in carrozzina e la preghiera. Ho paura di prendere un abbaglio. Non sono un ragazzino, ho quasi 30 anni. Il lavoro, che adoro, a quattro passi da casa, è la mia unica certezza, se lo perdo sono fregato. Voglio – pretendo! - che dal cielo mi si dica chiaramente che cosa fare. Discorsi infantili? Certo. Ma, in fondo, davanti a Dio non siamo sempre e solamente degli eterni bambini? Gesù non ha forse detto che dobbiamo diventare come loro per entrare nel regno dei cieli? E allora anche la testardaggine dei bambini in qualche modo ci appartiene. È mattina presto. Me ne vado, solo, nella Basilica del Rosario. Capelli e barba lunghi, jeans, scarpe ginniche, camicia militare, sguardo indagatore. Cuore in subbuglio. Non sembro di certo un seminarista o un postulante. La chiesa è deserta. Seduto in un banco, con la testa in una mano e nell’ altra la corona, prego.
Un giovane ben vestito, distinto, dal tratto signorile, viene a sedersi proprio accanto a me. Ha voglia di parlare. Mi rivolge la parola, fa domande. La cosa – confesso – mi disturba non poco. Avrei voluto starmene rintanato nel mio silenzio. Non posso. Il mio programma salta. A malincuore mi dispongo ad ascoltarlo, sperando di cavarmela al più presto. Mi accorgo, invece, che Gino - nome di fantasia - mi apre il cuore. Sempre di più. Scende nel profondo. Mi racconta qualcosa di molto grave. Continua. Mi viene l’ansia. Sono fortemente imbarazzato. Sento sulle mie spalle un peso che mi schiaccia. Mi faccio coraggio. «Gino – lo imploro – io sono un giovane come te, da poco mi sono riaccostato alla fede cattolica. Perdonami, ma non so consigliarti. Ci sono tanti sacerdoti italiani pronti ad aiutarti. Perché non vai a confessarti da loro?» Non vuole. Mi chiede, invece, se sono disposto a continuare ad ascoltarlo, in caso contrario, andrà via. È un professionista serio ed educato. Accetto. Trascorriamo insieme la giornata. Mi presenta sua mamma. La mattina dopo riparte. Non l’ho più rivisto. Io resto ancora una settimana. Ultimo giorno. Ultima visita alla grotta da dove arriva una forza magnetica che mi inchioda in ginocchio, per ore, sul selciato.