Triste il Paese diviso su Borsellino. Giù le mani dai nostri eroi
Se è vero che è “sfortunato il popolo che ha bisogno di eroi”, è ancor più sfortunato e triste il Paese che si divide sui propri eroi. Per questo, negli ultimi giorni, ci hanno rattristato le polemiche che hanno accompagnato l’anniversario della strage di via D’Amelio. Non vogliamo addentrarci nei rivoli di queste polemiche. Ci limitiamo a dire che abbiamo apprezzato chi, con comportamenti istituzionali inappuntabili, non le ha alimentate.
Dobbiamo piuttosto constatare che, sempre più spesso, i tanti “giorni della memoria” che segnano il nostro calendario civile innescano tentativi di uso politico della storia anziché diventare occasione per riflessioni storiografiche in cui si confrontino opzioni ideali e letture del passato anche molto diverse ma non strumentali.
Cosa diciamo a un giovane nato dopo le stragi del ’92-’93 e che da poco si è affacciato alla vita pubblica? Noi vorremmo dirgli che le discussioni politiche, la difesa anche accanita delle proprie posizioni in merito alle scelte da compiere nel governo del Paese non devono certo spaventare. Sono il sale di qualunque democrazia. Ma ci sono, nella nostra storia, insegnamenti che trascendono tutto questo e che costituiscono un patrimonio comune a cui possiamo attingere. Le decine di magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, avvocati, politici, le cui lapidi punteggiano la strada dei primi decenni della Repubblica hanno tutte un punto in comune: furono uccisi semplicemente perché facevano il loro dovere.
Se si guardano le loro storie personali si vedrà che essi, spesso, per lunghi anni erano vissuti appartati, ignorando le luci della ribalta, anche quando svolgevano funzioni importanti. E poi, all’improvviso, di fronte ad una scelta drammatica, non cercata ma neppure elusa, passarono, senza apparente distacco, come per un improvviso miracolo, dalle loro vite tranquille ed ordinate all’eroismo e alla tragedia. A questa cerchia di cittadini esemplari apparteneva Paolo Borsellino, alla cui figura amo avvicinare quella di due avvocati:
Fulvio Croce e Giorgio Ambrosoli, che (come Borsellino) nelle ultime settimane videro la morte venir loro incontro, ricevendo minacce a volte esplicite, a volte larvate ma sempre chiarissime. E non si tirarono indietro. Morirono consapevolmente. Testimoni dell’ideale repubblicano di amor di patria.
Che non ha nulla a che fare con l’antica retorica patriottarda di chi proclamava “è bello morire per la patria”. Parlo di quel discreto ma profondo amor di patria che ci raccontava Norberto Bobbio: l’amore diffuso ma non apparente dei tanti cittadini che ogni giorno svolgono il loro lavoro con coscienza; che hanno un radicato senso del dovere ma sono anche capaci di reagire, di mobilitarsi per ribellarsi al sopruso, alla prevaricazione, alla corruzione; che seguono le vicende della politica, a volte anche con passione, senza necessariamente esservi attivamente impegnati. Anche in questo Paolo Borsellino è esemplare. Sappiamo bene che, per militanza politica giovanile e con successive partecipazioni ad importanti convegni di partito, egli testimoniò la vicinanza culturale al mondo della Destra italiana.
Tanto che nel maggio 1992, quattro giorni prima della strage di Capaci, nel corso delle votazioni per il Presidente della Repubblica, i parlamentari del Movimento sociale italiano lo votarono come candidato di bandiera (raccolse 47 voti). Ma nessuno potrà mai dire che questa sua adesione ideale e culturale abbia inficiato un qualche suo atto giudiziario. Ci piace ricordarlo. Perché è la conferma che, per un funzionario dello Stato, la partecipazione al dibattito culturale e politico non significa necessariamente faziosità nelle proprie decisioni. Passione civile, saggezza ed equilibrio possono perfettamente convivere. E anche su questo insegnamento bisognerebbe meditare.
Quando ero ragazzo fui colpito da un discorso di De Gaulle che, parlando come Presidente della Repubblica del filosofo Jean Paul Sartre (critico inossidabile del gaullismo), diceva: « Il nostro Sartre». Ecco, parlando del “nostro Borsellino”, il Presidente Mattarella, in queste ore, ha detto semplicemente: « La Repubblica si inchina alla sua memoria». È la frase più bella che abbiamo sentito.