Se domani davvero ci sarà il voto (il condizionale è d’obbligo in una vigilia elettorale incerta e segnata dal sangue), si tratterà comunque di una giornata storica per gli egiziani. La maggioranza di loro infatti non si è mai recata alle urne. Le elezioni–farsa che si tenevano sotto il trentennale regime di Mubarak, periodicamente riconfermato presidente a stragrande maggioranza, hanno sempre registrato un’affluenza molto bassa, non oltre il 20 % degli aventi diritto. Basti pensare che al referendum costituzionale di marzo tutti gli osservatori gridarono al miracolo di fronte ad una partecipazione del 35 %! Sarà dunque fondamentale, prima ancora del responso che uscirà dalle urne, la scelta che faranno i cittadini del Cairo, di Alessandria e di altre città chiamati ad eleggere il Parlamento del più importante Paese arabo. Se riusciranno a farlo e si metteranno pazientemente in fila per compiere il loro diritto–dovere, sfidando il clima d’insicurezza e di tensione, vorrà dire che la volontà di cambiamento l’ha avuta vinta sui dubbi, sulle ansie e sulle paure di fronte a un procedimento elettorale complicatissimo e farraginoso che si trascinerà per quattro mesi.
Un percorso a ostacoli, un labirinto intricato, un vero e proprio rompicapo che solo una burocrazia militare ottusa e incapace come quella che governa attualmente l’Egitto poteva disporre. I giovani che in quest’ultima settimana sono tornati in piazza Tahrir chiedendo di annullare o almeno rinviare il grande rito del suffragio universale messo a punto dal Consiglio supremo delle Forze Armate avevano più di una buona ragione. La loro protesta contro gli uomini con le stellette guidati dal feldmaresciallo Tantawi ha pagato un alto tributo di sangue che ha esasperato ancor più gli animi.
Ma tra il voto e il vuoto è preferibile il primo. Sulle rive del Nilo la democrazia sognata a febbraio dopo la caduta del raìs vive una difficile gestazione, frenata continuamente dalla giunta militare che solo sotto la pressione delle recenti manifestazioni di piazza ha fissato una data per le elezioni presidenziali, nel giugno del 2012, e ha dato il via alla formazione di un nuovo governo consultando anche gli esponenti dell’opposizione. Ma è difficile immaginare un suo passo indietro. Da oltre mezzo secolo l’Egitto è una società dove comanda l’esercito il cui bilancio va oltre gli scopi difensivi e si estende a un ramificato apparato commerciale–industriale. Tutto questo continua a esistere anche dopo la destituzione di Mubarak, anzi in un certo senso la fragorosa caduta del raìs ha creato il terreno favorevole alla gestione diretta del potere da parte dei militari.
Il processo elettorale che dovrebbe cominciare domani segnerà il ridimensionamento del ruolo politico delle Forze Armate. Ma l’esito del voto prefigua scenari non meno inquetanti: tutti i sondaggi prevedono la vittoria degli islamisti, come già due settimane fa in Tunisia e ieri in Marocco. La primavera araba è destinata a finire nell’inverno rigido dell’integralismo? Le rassicurazioni dei Fratelli Musulmani, che hanno stretto un’interessata alleanza coi militari, dovranno superare la prova dei fatti, ma c’è chi vorrebbe evitare un simile test ad alto rischio. Sono i copti che chiedono il pieno rispetto della libertà religiosa e la fine delle persecuzioni, i giovani della “rivoluzione incompiuta” che esigono libertà e democrazia, i laici che rifiutano uno Stato islamico fondato sulla sharia. E’ di fondamentale importanza che non solo facciano sentire la loro voce sulle piazze ma sappiano farsi valere anche nelle urne.