Genocidio armeno. Alla fine la verità viene sempre fuori
«La verità ha la cattiva abitudine di venir fuori, alla fine», dice un proverbio turco citato più di una volta dallo storico Taner Akçam nel suo libro, "Killing Orders. I telegrammi di Talaat Pasha e il genocidio armeno" (uscito in Italia per Guerini nel 2020), in cui giunge alla definitiva dimostrazione che quei famosi telegrammi – raccolti e poi venduti da un funzionario dell’amministrazione turca a un giornalista armeno nel 1918 – sono assolutamente autentici.
Definito dal "New York Times" come «lo Sherlock Holmes del genocidio armeno», Akçam stesso (un intellettuale turco che ha conosciuto la prigione nel suo Paese, insegna negli Stati Uniti, ed è da decenni uno splendido combattente per la verità, in parole e opere) definisce la sua opera come la pistola fumante degli studi sulla tragedia armena. Ma perché questo gruppo di telegrammi è così importante? Cosa c’è in quei pochi testi che ne rende l’autenticità talmente fondamentale per la causa armena che è valsa la pena – da parte di vari governi turchi – di architettare complicate narrazioni per cercare di invalidarli?
Il fatto è che sono pietre miliari: essenziali, spoglie testimonianze del Male in azione, nella sua forma più autentica, senza infingimenti, senza retorica, senza mascherature di sorta. Il Male allo stato puro: la volontà, espressa con chiarezza e in poche parole brutali (nella lingua dei telegrammi, appunto) che gli armeni andavano soppressi, che non si potevano tollerare scrupoli di sorta, che questo era necessario per il bene della patria, perché amarla significava eliminarne il maggior numero possibile, senza esitazioni e senza riguardi...
Dai telegrammi appare con grande chiarezza la programmazione fredda e spietata dei massacri da parte di un gruppo di uomini fanaticamente devoti a quella terribile idea di sterminio totale di una minoranza, che si definisce appunto genocidio. Ma questa è una "parola nuova" per un "crimine nuovo", come aveva ben chiaro in mente Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che la inventò nel 1944, dopo aver studiato per anni il caso armeno e aver subito l’impatto della Shoah nella propria famiglia, come ebreo. E ne indagò ogni aspetto.
Questa parola racchiude in sé, nelle due radici – greca e latina – che la compongono, l’esatto, gelido mondo del suo significato, come venne poi adottato dalle Nazioni Unite nel dicembre 1948. E quindi anche la parte di esso più oscura e meno facile a comprendersi, quella che si accompagna come un’ombra insidiosa alla ferocia distruttiva delle uccisioni, del sangue, dei morti, e cioè la negazione. Se si studiano i parallelismi e le connessioni (oggi supportati da una mole sempre crescente di studi) fra il genocidio armeno e quello ebraico, si può infatti facilmente constatare come – in entrambi i casi – fin dall’inizio gli organizzatori siano stati molto, molto attenti a usare eufemismi e termini addolciti, evasivi o generici per definire le loro "imprese", le cose terribili che stanno ordinando di compiere.
Dalle deportazioni verso il nulla nel deserto siriano chiamate "trasferimenti per causa di guerra" ai campi di morte di Ras-ul-Ain o di Deir-es-Zor, chiamati "nuovi stanziamenti famigliari", è tutto un fiorire di termini neutri, a volte addirittura gentili, che in realtà grondano morte. E anche nei telegrammi pubblicati da Akçam si leggono agghiaccianti dettagli, come l’esasperata attenzione dedicata a impedire a stranieri di entrare nei campi di morte, o anche di avvicinarsi a essi, o la continua raccomandazione di bruciare gli innumerevoli cadaveri abbandonati lungo le strade della deportazione, il cui lezzo è ammorbante nel calore estivo: per sbarazzarsene, si cercano operai, e dalla capitale si ordina di non badare a spese...
Sono tanti anni che le comunità armene, in tutto il mondo, cercano di ottenere che gli Stati in cui risiedono dichiarino solennemente che allora, nel 1915, gli armeni nell’Impero ottomano furono vittime di genocidio. Non fu massacro, non fu strage: fu genocidio, nel senso vero del termine. E il governo di Turchia vi si oppone, con tutti i mezzi, perché conosce il valore di questa parola. L’Italia lo ha fatto due volte, nel 2001 e nel 2019. Negli Stati Uniti, a parte Reagan, una volta e in forma non solenne, i vari presidenti hanno promesso (come Obama), ma non l’hanno mai pronunciata, preferendo usare parole come "stragi" o "massacri".Ieri, 24 aprile 2021, il nuovo presidente Joe Biden ha finalmente saputo dirla, la parola proibita. E questo vuol dire che anche nella grande America la verità – come dice il proverbio turco – ha la cattiva abitudine di venir fuori, alla fine.