Germania e Francia in Africa. Genocidi, chiedere perdono è ridare dignità a un popolo
Prigionieri Herero e Nama in una foto risalente alla guerra contro l'occupazione tedesca (1904-907)
Namibia, Ruanda, Repubblica democratica del Congo. Storie e Paesi diversi accomunati da un passato drammatico fatto di massacri con un intento preciso: genocidio. Per decenni chi ha compiuto quelle violenze o chi non ha fatto nulla per impedirle o chi se ne è reso complice ha fatto di tutto per nascondere o, semplicemente, non ammettere le proprie responsabilità. Qualcosa è cambiato, però, negli ultimi tempi. «Quando ad una collettività viene negato il diritto di esistere – ciò che chiamiamo genocidio – la coscienza collettiva dell’intera l’umanità si impoverisce», ha sottolineato di recente ad 'Avvenire' Rosario Aitala, giudice della Corte penale internazionale dell’Aja chiamata a giudicare proprio su genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Aitala evidenziava che «le atrocità di massa sono sempre atti politici, inerenze del potere, e sono unite da un filo invisibile: il processo di de-umanizzazione e negazione della dignità delle vittime». Ecco perché, a distanza di anni, ammettere colpe e responsabilità può avere un senso, restituendo dignità a popoli interi la cui memoria collettiva è stata a lungo ferita.
Nei giorni scorsi, ad un secolo di distanza, è stata la Germania a mettere nero su bianco che il massacro delle popolazioni Herero e Nama in Namibia durante il periodo coloniale tra il 1884 e il 1915 fu 'genocidio'. Non un’ammissione 'spontanea', se vogliamo, ma il frutto di un accordo siglato dopo oltre cinque anni di vere e proprie trattative tra le autorità di Berlino e il Paese africano. A titolo di «riconoscimento per il dolore inumano sofferto dalle vittime », la Germania verserà oltre un miliardo di euro – somma che sarà erogato in 30 anni – per sostenere i discendenti di Herero e Nama in progetti 'per la ricostruzione e lo sviluppo', ha annunciato il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas. Il bilancio del periodo coloniale in quella che allora veniva chiamata Africa tedesca sudoccidentale è impressionante, tanto da far parlare gli storici del primo genocidio del Ventesimo secolo: tra i 65mila e gli 80mila Herero e tra i 10 e i 20mila Nama furono massacrati, secondo le ultime ricerche. Durante il periodo della dominazione tedesca della Namibia, la rivolta scoppiata nel 1904 provocò una durissima reazione dei soldati imperiali. In quell’occasione, dopo la battaglia di Waterberg nell’agosto del 1904, le truppe a cavallo dell’esercito spinsero la popolazione civile Herero, tra cui donne e bambini, in direzione del deserto del Kalahari. Solo in alcune migliaia tornarono vivi da quelle terre. In seguito il generale prussiano di fanteria Lothar von Trotha fu incaricato di sterminare la popolazione.
«Non si può cancellare il passato – ha ammesso ora il ministro tedesco Haas – ma il riconoscimento della colpa e la nostra preghiera di perdono è un passo importante per elaborare i crimini e per plasmare il futuro». In un secondo momento sarà il presidente della Repubblica tedesca, Frank-Walter Steinmaier, ad andare a chiedere perdono direttamente davanti al Parlamento della Namibia. Un passo importante, se si pensa a quante volte i Paesi europei abbiano minimizzato i crimini del passato coloniale. A Windhoek, capitale della Namibia, tuttora nomi delle strade e monumenti parlano invece di quelle dolorose vicende. Per il portavoce del presidente del Paese africano, Hage Geingob Alfredo Hengari, il riconoscimento del genocidio è «un primo passo nella giusta direzione», ma non è ancora sufficiente: «È la base di una seconda iniziativa, che è quella delle scuse, a cui seguiranno i risarcimenti ». Maas al momento non ha parlato di riparazioni, ma di 'gesto di riconoscimento': infatti, il termine 'riparazioni' potrebbe aprire una lunga disputa legale, come sa bene Berlino dopo i numerosi accordi con la Polonia.
Nei giorni scorsi storica è stata anche la svolta del presidente francese Emmanuel Macron in visita in Ruanda. Per la prima volta, infatti, un capo dell’Eliseo ha riconosciuto le «responsabilità» della Francia nel genocidio del 1994 perpetrato dagli hutu contro i tutsi. «Responsabilità» e non «complicità», ha voluto rimarcare il presidente. Che non ha comunque presentato scuse, come da alcune parti ci si attendeva. Macron ha pronunciato il suo discorso al Memoriale del genocidio di Gisozi, quartiere della capitale Kigali in cui sono sepolti i resti di oltre 250mila vittime della carneficina commessa dagli hutu fra il 7 aprile e il 17 luglio 1994, che si concluse con la morte di un numero compreso fra 800mila e un milione di tutsi. La Francia, ha proclamato Macron, ha «un ruolo, una storia e una responsabilità politica» in quello che successe in Ruanda, anche se «non ne è stata complice». Ma oggi per il Ruanda, come è stato per l’Algeria, Parigi «ha un dovere: guardare in faccia la storia e riconoscere la parte di sofferenza che ha inflitto al popolo ruandese». «La Francia – ha proseguito il presidente – non ha capito che, volendo ostacolare un conflitto regionale o una guerra civile, di fatto rimaneva al fianco di un regime colpevole di genocidio. Ignorando gli allarmi degli osservatori più lucidi, Parigi si assunse una responsabilità schiacciante in un ingranaggio che condusse al peggio, e proprio mentre cercava di evitarlo».
La figura di Macron in piedi davanti ai ruandesi a riconoscere le colpe della Francia è comunque simbolica e il presidente – che da tempo attendeva questo appuntamento – ha mantenuto un impegno preso da tempo. Al suo fianco in conferenza stampa, il presidente ruandese Paul Kagame è apparso pienamente soddisfatto ed ha parlato di «immenso coraggio» da parte del suo «amico» Macron: «Le sue parole – ha detto – hanno avuto più valore delle scuse. Esse erano la verità». La svolta è giunta dopo un lungo e delicato lavoro diplomatico di riavvicinamento che ha fatto ampio uso pure del lavoro degli storici. Uno di loro, il francese Vincent Duclert, ha presieduto un gruppo di lavoro voluto dall’Eliseo per delimitare le responsabilità francesi. A fine marzo, ne era scaturito un rapporto dettagliato (di 1.200 pagine) pronto a considerarle «pesanti e schiaccianti ». Sullo stesso versante una svolta storica era arrivata esattamente un anno fa dal re Filippo dei Belgi, che per la prima volta si era detto «profondamente dispiaciuto per le ferite» inflitte durante il colonialismo alla Repubblica democratica del Congo. L’occupazione del Congo cominciò attorno al 1880, al tempo di re Leopoldo II. Si calcola che durante la sua dominazione, considerata una delle più spietate dell’epoca coloniale, furono uccisi circa 10 milioni di africani, con modalità spesso atroci.
Il 'Libero Stato del Congo' era di fatto un dominio privato che Leopoldo II gestì senza alcun controllo. Lo scorso anno, nel sessantesimo dell’indipendenza di Kinshasa, il governo belga ha deciso di creare una commissione parlamentare che cercherà di scrivere la vera storia della colonia, traendo gli insegnamenti del caso. Il prossimo 21 giugno il presidente congolese Félix- Antoine Tshisekedi si recherà a Bruxelles per partecipare alla cerimonia per il rimpatrio dei resti (di fatto solo un dente) dell’eroe nazionale Patrice Emery Lumumba, assassinato nel 1961, pochi mesi dopo l’indipendenza, in circostanze poco chiare. Il 30 sarà invece il re Filippo a recarsi a Kinshasa. «Nel 2020 dobbiamo essere capaci di guardare a questo passato comune con lucidità e discernimento, un passato ricco di disuguaglianze e violenze verso i congolesi », esortò un anno fa l’ex premier belga Sophie Wilmes. Per chiedere scusa, o per cercare la verità, non è mai troppo tardi.