Sbagliano le migliaia di ragazzi che manifesteranno oggi in alcune piazze italiane contro il precariato? Certamente no. Dal lavoro alla previdenza, passando per gli ammortizzatori sociali, la generazione dei 20-30enni è sicuramente penalizzata.Con l’esplodere della crisi si è trovata schiacciata tra una flessibilità che non funzionava più da canale d’ingresso nelle imprese e l’assenza di sostegni al reddito.La spesa (ingente) impegnata per la cassa integrazione ha protetto bene i padri, i dipendenti, ma ha fatto sì che le porte delle aziende fossero ancora più sbarrate per i figli, per chi era fuori dalla cittadella fortificata. I tagli ai bilanci pubblici e privati hanno prosciugato anche quei pochi rivoli di fondi che garantivano qualche mese o un anno di stipendio ai vari co.co.co., contrattisti a termine, supplenti e ricercatori in attesa di «sistemazione definitiva». Tutto ciò mentre un numero sempre più elevato di aziende «creava valore» sostituendo un dipendente con uno stagista. Salvo poi pagare milioni di buonuscita a qualche manager. E così chi oggi ha 30 anni non trova un’occupazione corrispondente al suo titolo di studio, fatica ad essere autonomo, a formare una famiglia, non risparmia, già sa che maturerà una pensione inferiore a quella sociale.Tutto vero, tutto tristemente vero. E i giovani – al di là delle inevitabili strumentalizzazioni politiche – fanno bene a denunciarlo in piazza. Dovrebbero gridarlo sui tetti. Se ancora fossero maggioranza, come nel ’68, ci sarebbe una «rivoluzione». Ma difficilmente avverrà.Anzitutto perché i giovani sono sempre meno – appena il 10% della popolazione italiana – l’elettore mediano ha 48 anni e la metà degli iscritti al sindacato è pensionato. Ma soprattutto perché, al di là di qualche provvedimento utile (e però parziale), il problema del precariato dei giovani si può risolvere solo con un cambio radicale di mentalità e se l’intera popolazione sarà disposta a pagarne almeno una parte del prezzo.Come? Riscrivendo il patto tra le generazioni. Il nodo è che la struttura economico-sociale che ci siamo dati negli ultimi 50 anni non regge più sotto la spinta della globalizzazione, dei cambiamenti demografici, della rivoluzione informatica, basata com’è su schemi rigidi e costruita quasi interamente a debito. E oggi non è più in grado di assicurare a tutti i diritti e le tutele che ha promesso largamente e di cui ancora «godono» le generazioni dai 40 anni in su. Come la sostanziale inamovibilità dal posto di lavoro, la cassa integrazione anche per decenni legata a un’occupazione ormai improduttiva o un assegno pensionistico versato per 30 anni dopo appena 36 di contributi. Assieme all’illusione che ci sia più bisogno di giornalisti che di falegnami, di archeologi che di operatori socio-sanitari, che i primi valgano più dei secondi. O che basti avere un titolo di studio purchessia per avere «diritto» a un lavoro ben remunerato.La realtà è che – fatti salvi quelli fondamentali, fissati nelle costituzioni – la parola «diritto» andrebbe sostituita nel nostro vocabolario politico da «opportunità». Ed è questo che i giovani oggi in piazza dovrebbero pretendere, senza seguire vecchi schemi: avere (pari) opportunità di studiare, per merito anche se non vengono da famiglie benestanti. Di lavorare, senza essere sfruttati perché la loro flessibilità serve a compensare la rigidità di altri. L’opportunità di avere una casa a costi agevolati. Di contribuire davvero con la loro creatività, i talenti di ognuno, a modificare la società. Avere l’opportunità di coltivare un progetto di futuro. Che è il loro, ma è anche quello di tutti noi.