Tutela dell’ambiente e sicurezza alimentare. Garantire il cibo ai più poveri è anche una questione di clima
Questo 2015 sembra poter lasciare grandi tracce sulle questioni ambientali globali e le loro relazioni con lo sviluppo umano. Lo scorso 7-8 giugno, i Paesi del G7 hanno fatto passi importanti nella preparazione della Cop21 del prossimo dicembre a Parigi, la conferenza sul clima da cui si attende un nuovo accordo multilaterale sul cambiamento climatico che possa succedere al Protocollo di Kyoto, terminato nel 2012. Gli impegni attesi di riduzione delle emissioni sono significativi, fra il 40% e il 70% nel 2050 rispetto ai livelli del 2010. Tuttavia il successo del nuovo trattato dipenderà dal fatto che la Cina e altri emergenti assumano impegni vincolanti sulle emissioni, essendo ormai i maggiori e più dinamici emettitori di gas serra. Su questo fa ben sperare il pre-accordo tra Usa e Cina della fine del 2014. Conforta inoltre che il G7 abbia confermato l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno da parte dei Paesi avanzati a favore dei Paesi in via di sviluppo (Pvs) per sostenerli nella lotta al cambiamento climatico, come già deciso nella Cop16 di Copenhagen del 2009.
Nella partita geo-politica del clima, in particolare sul fronte dei Pvs, agricoltura e alimentazione giocano un ruolo più importante di quello che può sembrare. L’agricoltura produce soltanto il 10-12% delle emissioni globali di gas serra, essendo la produzione di energia, i trasporti e l’industria a generare la maggior parte delle emissioni. L’agricoltura nei Pvs produce solo il 12,5 % delle emissioni totali agricole, anche se traina deforestazione e cambiamenti d’uso del suolo che contribuiscono per il 17% alle emissioni globali. Per converso, è invece molto importante il ruolo che il cambiamento climatico può avere sui sistemi agricolo-alimentari dei Pvs e quindi sulla loro sicurezza alimentare. I cambiamenti dei regimi idrici e delle temperature indotti dal cambiamento climatico sono attesi determinare delle forti riduzioni di rese agricole, ad esempio fino al 30% per il grano e del 15% per il riso in Africa. Inoltre, il cambiamento climatico aumenta molto i rischi di eventi estremi, come tempeste, inondazioni, siccità. Dei 24 Paesi identificati come maggiormente esposti a tali rischi climatici, 17 sono Pvs. Anche se molte stime presentano incertezze, le loro conseguenze per i bilanci alimentari e la malnutrizione sono facilmente immaginabili. Secondo studi Ocse/Fao la domanda alimentare globale aumenterà del 70% entro il 2050, mentre per la Banca Mondiale il Pil originato in agricoltura nei Paesi in via di sviluppo è due volte più efficace nel ridurre la povertà del Pil originato in altri settori.
Sotto un profilo tecnico e strategico tale scenario di perdita del sistema agricolo di fronte al cambiamento climatico viene sempre più visto in termini di "adattamento". Rispetto alla linea principale delle politiche climatiche globali, che riguarda la riduzione delle emissioni e quindi la cosiddetta "mitigazione", l’adattamento comporta la consapevolezza che il cambiamento climatico è in atto e che le politiche di mitigazione non potranno eliminarlo completamente. Quindi diventa necessario ridurre al minimo le sue conseguenze umane, ambientali ed economiche.
È una rotazione concettuale importante perché comporta la considerazione del rischio climatico in ogni decisione, ad esempio di insediamento produttivo, di sviluppo agricolo, di pianificazione territoriale. Mentre la mitigazione comporta una forte attenzione alle tecnologie energetiche, l’adattamento comporta un modo di pensare, programmare e agire improntato ad una cultura del rischio e della precauzione, e ciò può anche comportare il "non fare" quando questo espone al rischio o lo aumenta. Per queste sue caratteristiche "prudenziali", l’adattamento può interferire con una cultura produttivistico-consumistica imponendo di rispettare dei limiti. Segno ne è che, nonostante la Cop di Cancun abbia adottato il "quadro di riferimento per l’adattamento" nei Paesi in via di sviluppo, che riguarda molto i sistemi agricolo-alimentari, le politiche climatiche restano per ora ancora molto centrate sulla mitigazione.
Il possibile spiazzamento dei sistemi agricoli e della sicurezza alimentare dei Pvs derivante dal cambiamento climatico corrisponde anche ad un possibile spiazzamento rispetto alla realizzazione del "Diritto al cibo", che va oltre le soluzioni tecniche e strategiche e riguarda, per molti aspetti, il modo stesso in cui vedere il mondo. Posto al centro del messaggio culturale di Expo 2015, ma ben presente da decenni nel dibattito internazionale sullo sviluppo, il diritto ad un’adeguata e sana alimentazione è da sempre uno dei grandi riferimenti di dottrina e azione della Chiesa Cattolica, anche perché la povertà è innanzitutto alimentare. Papa Francesco ha ribadito con forza a più riprese, nei suoi interventi recenti sulla questione dalla fame e dello spreco alimentare, o del «paradosso dell’abbondanza», qualcosa che richiama il principio di «destinazione universale dei beni». Nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, si legge che «ogni uomo deve avere la possibilità di usufruire del benessere necessario al suo pieno sviluppo: il principio dell’uso comune dei beni è il "primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale" e "principio tipico della dottrina sociale cristiana"». Il Diritto al Cibo è quindi anche diritto alla terra e alle risorse naturali e strumentali che consentono la produzione di cibo.
I legami sistemici tra clima, agricoltura, alimentazione, povertà e sviluppo richiamano quindi questioni fondamentali di principio, in particolare il senso dell’ambiente per la realizzazione umana, a cui le grandi politiche globali dovrebbero più chiaramente richiamarsi. Giovedì 18 giugno è attesa la pubblicazione dell’enciclica di Papa Francesco, Laudato si’, sulla cura della casa comune. Non è difficile intuire che si tratterà di un documento incisivo, sia sul piano dottrinale sia per lo stimolo ad affrontare con forza, dentro e fuori la Chiesa, i gravi impegni di cambiamento culturale, sociale ed economico imposti dalle questioni ambientali. Non è difficile intuire che l’Enciclica lascerà tracce importanti, dentro e fuori la Chiesa. Sullo sfondo resta, ineliminabile, la dimensione gioiosa dell’ambiente. Banalmente, chiunque in questi caldi giorni di giugno attraversi la pianura padana, una delle aree più densamente popolate, infrastrutturate e industrializzate d’Europa, non può non essere catturato dal profumo della fioritura dei tigli e dei gelsomini, perfino nelle inquinate periferie industriali e nel trafficato centro di Milano. Piccoli ma fondamentali segni di una profonda resistenza del Creato che, nonostante le nostre follie ed esagerazioni, ci custodisce. Ricambiare custodendolo, nel segno di una "ecologia umana" in cui l’ambiente è parte costitutiva di un’antropologia umanistica e della gioia di vivere, è ciò che può dare senso ai trattati internazionali sul clima e alle esposizioni universali sull’alimentazione.