Deve sempre essere possibile scorgere in ogni dono dello Spirito un bene destinato alla vita secondo lo Spirito dell’intera Chiesa. E perciò, in un modo o nell’altro, dell’intera famiglia umana. (Per chi altro, in definitiva, la Chiesa riceve – e nella Chiesa si ricevono – doni dello Spirito?). La trasparenza di questa correlazione, enfatizzata nelle lettere di san Paolo ma saldamente radicata nelle parabole evangeliche di Gesù, è opportunamente riassunta, fin dall’inizio della lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede ai Vescovi cattolici, in una bella citazione di Basilio: «E questi doni ciascuno li riceve più per gli altri che per se stesso [....]. Nella vita comune è necessario che la forza dello Spirito data all’uno venga trasmessa a tutti. Chi vive per conto suo, può forse avere un carisma, ma lo rende inutile conservandolo inattivo, perché lo ha sotterrato dentro di sé» (
cfr n.5). È la stessa cosa che seppellire il talento ricevuto dal Signore per non correre il rischio di trafficarlo, paralizzati dalla paura di perderlo (
Matteo 25, 14-30). Il testo della lettera, presentata ieri in Vaticano, è ampio e ricco, e la dottrina dei doni dello Spirito viene esposta in modo assai trasparente, con stile piacevolmente propositivo e sapienziale. Mi limito, qui, alla puntualizzazione di un duplice focus che mi sembra centrale per l’intenzione e lo spirito del documento. Lo Spirito accende fuochi di emozionante bellezza nella vita della Chiesa. E nessuno deve spegnere lo Spirito (1
Tessalonicesi 5, 19). Ma non tutto quello che ci accende bagliori della mente ed eccita pulsioni dell’anima è per ciò stesso acceso dallo Spirito. I credenti per primi – a vantaggio di tutti, anche in questo! – devono coltivare l’umiltà necessaria al discernimento degli spiriti. Soprattutto se si tratta di carismi – preziosissimi e benedetti – che mettono capo a percorsi, movimenti, consacrazioni che percorrono l’intera Chiesa: e dunque impongono una speciale maturazione, uno speciale discernimento, una speciale vigilanza. La prima puntualizzazione è questa. Chi ha ricevuto i doni necessari alla guida e all’edificazione della Chiesa «ha anche il compito di vigilare sul buon esercizio degli altri carismi, in modo che tutto concorra al bene della Chiesa e alla sua missione evangelizzatrice». Il dono gerarchico, ossia il dono destinato alla continuità e alla fedeltà dell’istituzione apostolica della Chiesa, predisposta dal Signore, non viene da un 'altro' Spirito o da 'nessuno' Spirito. Viene dallo 'stesso' Spirito. Dovrebbe essere semplicemente congedato, perciò, con definitiva eleganza (come fa il testo), il pregiudizio di una forma cattolica in cui lo Spirito e l’istituzione sono, non dico in conflitto, ma anche semplicemente in competizione fra loro. Quando questa presunta competizione è il presupposto del discernimento la forma cattolica è teologicamente già persa. E con essa i doni e i frutti della salda e creativa alleanza dello Spirito e dell’istituzione. Il secondo punto di volta lo vorrei restituire prendendo un’immagine molto bella, che viene direttamente riferita al ministero dei Vescovi, in ordine alla circolazione dei doni dello Spirito nelle Chiese, fra le Chiese e per l’intera Chiesa. Il testo parla di un dono del ministero episcopale che rifluisce nella Chiesa tutta, «attraverso la collegialità affettiva ed effettiva»: fra i Vescovi e col Papa (n.21). Mi sembra che l’immagine offra una splendida analogia anche per l’intonazione del tema dei carismi, nelle Chiesa e fra le Chiese, per l’intera Chiesa. I 'criteri' del discernimento dei carismi, secondo la forma cattolica, che vengono dettagliatamente esposti nel n.18 sono tutti sostanzialmente ispirati all’esercizio di questa sintonia «affettiva ed effettiva» tra i singoli doni e la loro disponibilità a lasciarsi mettere alla prova della recezione ecclesiale. Un’autentica novità suscitata dallo Spirito «non ha bisogno di gettare ombre su altre spiritualità e doni per affermare se stessa» (n.18,
e). Dovessimo restituire calore e ispirazione al tema posto da questa lettera sapienziale non ne verrebbe forse anche una folata dello Spirito per l’intera convivenza della
polis odierna, così povera di attenzione per gli spiriti più 'utili' all’edificazione della comunità, e così litigiosa, nella sua sterile competizione per i carismi più 'futili', che la disperdono?