Opinioni

I funerali di Padoa-Schioppa. L'uomo dei sacrifici, senza arroganza né sicumera

Giorgio Ferrari mercoledì 22 dicembre 2010
Di Tommaso Padoa-Schioppa – del quale ieri si sono celebrati i funerali – si ricorderanno più facilmente di altre due colorite esternazioni: quella sui “bamboccioni” e quella sul piacere di pagare le tasse. Le proferì entrambe in qualità di ministro dell’Economia del governo Prodi, e per magnificare la norma della legge Finanziaria che prevedeva agevolazioni sugli affitti per i più giovani disse nel corso dell’audizione davanti alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato: «Incentiviamo a uscire di casa i giovani che restano con i genitori, non si sposano e non diventano autonomi. Mandiamo i bamboccioni fuori di casa». Rimase proverbiale, e non tutti ne furono entusiasti.Ancor meno lo furono i molti che – in un Paese come il nostro dove l’evasione e l’elusione fiscale sono fra le più diffuse dell’Occidente – si sentirono dire nel corso di un’intervista radiofonica: «Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l’istruzione e l’ambiente».Ma questo era l’uomo. Con i suoi difetti, le sue ambizioni, i traguardi mancati (il più vistoso dei quali fu quello che egli considerò lo scippo della carica di governatore di Bankitalia che riteneva gli spettasse dopo esserne stato vicedirettore generale), le sue utopie. E il suo grande amore per l’Europa. Bellunese per sbaglio – la famiglia era milanese – nato benestante, liceo a Trieste, laurea alla Bocconi, master al Massachusetts Intitute of Technology di Boston con Franco Modigliani, una carriera pendolare fra Bankitalia e l’Unione Europea, Padoa-Schioppa, che si autoproclamava keynesiano-liberale, teorizzò negli Ottanta l’idea della “moneta senza Stato”, anticamera della moneta unica europea per porre rimedio a quello che lui chiamava «l’inconciliabile quartetto», ovvero l’impossibilità di ottenere contemporaneamente libero commercio estero, mobilità dei capitali, politiche monetarie nazionali indipendenti, tassi di cambio fissi. In molti, non senza ragione, finirono per considerarlo l’ideologo dell’euro. Per questo entrò di diritto nel comitato esecutivo della neonata Banca centrale europea.Nel corso di una cena bolognese (presenti tra gli altri Arrigo Levi e il compianto Beniamino Andreatta), “Tps” – come lo chiamano affettuosamente colleghi e amici – si infastidì allorché chi scrive gli domandò se l’Europa delle banche, dei banchieri, dei parametri, del rapporto deficit/Pil, dove la stessa Bce è statutariamente irresponsabile se non della stabilità dei prezzi, potesse anche considerarsi l’Europa dei cittadini. Sapeva che questo è il lato debole dell’Europa “à la carte”, ma era convinto che per iniziare bisognava lasciar fare ai grandi burocrati. Come lui.In un libro dal titolo “La veduta corta” sostenne che una società che ha paura di fare oggi i sacrifici necessari per preparare il domani è una società che tradisce le giovani generazioni e che non è in grado di garantire a nessuno il futuro. Da ministro, sacrifici ne chiese tanti. Da economista pure. In fondo, al di là dei suoi modi a volte scostanti, è stato un grande moralista. Di certi politici gli è mancata l’arroganza, di alcune star dell’economia l’eccessiva sicumera. «L’unica cosa certa – scrive il “Guardian” di Londra – è che gli italiani non sentiranno molto la sua mancanza». Sarà, ma non siamo sicuri che sia proprio vero.