Il Codice di Camaldoli. Fiume carsico mai prosciugato
Il Codice di Camaldoli risponde a una esigenza avvertita da una generazione di intellettuali che ha conosciuto il dramma della guerra e il giogo del totalitarismo, provenendo da una cultura politica giudicata, dapprima, di ostacolo alla nascita della nazione e, in seguito, rivelatasi debole di fronte alla fiera rivendicazione totalitaria del regime fascista. In questo senso, l’elaborazione del Codice di Camaldoli rappresenta un adeguato tentativo di conformare la funzione del cattolicesimo politico, economico e sociale italiano alle esperienze europee di fine Ottocento e delle prime decadi del Novecento. Si pensi ad esempio al cosiddetto “Codice sociale”, elaborato dall’Unione internazionale di studi sociali fondata a Malines nel 1920, posta sotto la presidenza del Cardinal Mercier. L’Unione produsse una prima versione del noto Codice nel 1927 ed una seconda nel 1933.
In Italia la traduzione dell’edizione del 1927 apparve lo stesso anno, mentre quella del 1933 venne pubblicata nel 1934 e nel 1944 riproposta ed impreziosita da un ricco corredo bibliografico. Lo scopo del lavoro era di tenere aggiornata la riflessione dei cattolici in materia di questioni sociali, non dimentichiamo che nel 1891 era stata promulgata da Leone XIII la lettera enciclica Rerum novarum e che l’Unione di Malines nasceva sotto l’impulso del ministro belga Helleputte e del professor Duthoit, rispettivamente, uno dei maggiori esponenti dell’Unione di Friburgo ed il presidente delle “Settimane sociali” francesi.
Pertanto, il Codice di Camaldoli si inserisce in questa tradizione, sebbene assuma un obiettivo più ambizioso. Non un aggiornamento, bensì il rilancio della questione sociale, letta alla luce della dottrina cristiana, nel contesto storico, politico ed economico di un’Italia distrutta e da ricostruire sotto il profilo materiale, morale ed istituzionale. Erano ormai lontani gli anni del non expedit, così come erano altresì lontani gli anni eroici durante i quali una generazione di giovani aveva contribuito con don Luigi Sturzo a scrivere una delle pagine più significative della storia del nostro paese.
Quei giovani popolari subiranno la diaspora e saranno inghiottiti dal ventennio fascista. Alcuni non sopravvissero; Sturzo, insieme ad altri, fu costretto all’esilio, alcuni trovarono riparo dentro le mura del Vaticano, altri ancora si ritrovarono a condurre un’esistenza politicamente e culturalmente clandestina. Una cosa è certa, come un fiume carsico, l’impegno di quella generazione di cattolici impegnati nel sociale non andò perso e tornò nuovamente protagonista sul finire della Seconda guerra mondiale. Quella generazione si assumerà la responsabilità di pensare il “nuovo ordine” del Paese. Il tutto accadde in breve tempo, i giovani che si ritroveranno a Camaldoli nel luglio del 1943 non crediamo immaginassero neppure che di lì a poco le loro idee potessero diventare alcune delle linee guida che maggiormente condizioneranno il processo costituente della futura Repubblica italiana. Al di là di tale autoconsapevolezza, questa nuova generazione di cattolici avvertiva il bisogno di “prendere posizione”, nella speranza che un nuovo ordine di lì a poco sarebbe potuto nascere.
Tale speranza, al di là delle pur profonde differenze di merito, era il tratto che univa l’esperienza del popolarismo sturziano alla nuova generazione di democratici cristiani. Con riferimento alle differenze di merito, rispetto alla formulazione del Codice di Camaldoli in materia economica, esse riguardano innanzitutto il modo in cui i camaldoliani hanno inteso il ruolo finalistico dello Stato, i concetti di bene comune e di giustizia sociale, fino alla tematizzazione della “funzione extra fiscale del tributo”. Tali concetti, espressi dai redattori camaldoliani, almeno rispetto alla elaborazione teorica sturziana, non chiariscono fino in fondo i dubbi circa la coesistenza nel Codice di elementi olistici e monistici accanto ad altri spiccatamente personalisti.
Ad ogni modo, al di là delle differenze, è opportuno sottolineare il tratto che unisce tra loro i due estremi del segmento storico che narra la vicenda dei cattolici in politica, anche rispetto alle esperienze che in quegli anni andavano maturando in altri Paesi europei come la Germania e il Regno Unito. In definitiva, la consapevolezza che fosse giunto il momento di rispondere alla furia cieca della violenza con il ristabilimento di un principio tanto popolare quanto liberale e che finisce per accomunare l’esperienza italiana, tedesca ed anglosassone: lì dove c’è miseria, la libertà non ha cittadinanza e dove la libertà non può esprimersi, la miseria non trova ostacoli. Un principio, considerate le tante fratture – umane, politiche e sociali, fino a quella drammatica della guerra alle porte d’Europa - cui ispirarsi anche oggi.